A metà del guado
Il carrozzone festivaliero procede: senza scosse adrenaliniche, senza polemiche al vetriolo, senza iperboli emozionali, fatta eccezione per la superlativa e commuovente testimonianza/esibizione del maestro Ezio Bosso, uno dei tanti geni made in Italy, misconosciuti (fino a ieri) in patria.
Tutto sommato meglio la seconda serata della prima, così come appaiono più convincenti i giovani delle “nuove proposte” dei “big”. Sempre divertente la Raffaele, sempre imbarazzante Garko, sempre meglio i contorni delle portate principali. Ma tutto scorre secondo i copioni consueti e con un target più che mai dichiarato, quello sintetizzato da Carlo Conti al Tg1, a pochi minuti dal debutto: “Riunire le famiglie italiane intorno al televisore”. Del resto questo è il fiore all’occhiello della rete ammiraglia di casa Rai, assemblata con le stesse logiche dall’alba di Uno Mattina fino alle notti fonde di Porta a Porta: un’operetta costruita sui gusti della maggioranza dei suoi fruitori (i benemeriti over sixty), e lasciando agli altri il piacere del dileggio da bar.
Ma se la banda del Dopofestival è complessivamente più godibile del Festival stesso, se mancano melodie degne d’arrivare all’estate e la miglior canzone sentita finora è l’hit Est-ce que tu m’aimes della nuova star transalpina Maître Gims, se l’ospite più simpatico oltre al mirabile Bosso s’è rivelato un arzillo novantanovenne,allora vuol dire che questo festivalone sta partorendo il solito topolino e che forse ci sarebbe da riesumare il lapidario “Tutto il resto è noia” califanesco.
Va pur detto che le nuove canzoni sulle prime sembrano sempre peggio di quelle dell’anno prima; certo, è perché hanno bisogno di tempo per entrarti in testa o per appiccicarsi all’anima, ma stavolta l’impressione è che sia proprio così. Con l’eccezione di Elio e compari: saltimbanchi del pentagramma sbarcati all’Ariston con un bizzarro pastiche composto da sette ritornelli in altrettanti stili diversi.
D’altra parte, visto il successo della scorsa edizione, era impensabile un cambio di rotta, ma se nel frattempo è la realtà sociale ad essersi ulteriormente incupita (per molti gli incubi e le depressioni stanno surclassando le speranze), allora è presumibile che l’aggrapparsi alle rassicuranti convenzioni sanremesi funzioni più da analgesico che da ricostituente.
A chi guida le danze va ovviamente benissimo così, anche se i sorrisoni di Conti risultano esagerati quanto i suoi superlativi, certe mise imbarazzanti, e molti ingredienti del tutto irrilevanti. Sanremo questo è, e in fondo è sempre stato: non è costruito per regalare sorprese (che quando arrivano sembrano quasi miracoli sfuggiti ai copioni), ma per spremere sponsor e far quadrare bilanci. Se ambite a qualcosa di più o di meglio, non cambiate canale, spegnete la tivù.