A Kampala con i miei alunni

Diciotto giorni in Uganda per un’esperienza indimenticabile di volontariato. Lo raccontano un’insegnante e i suoi alunni
Bambini di Kabul

Da alcuni anni nel "De Nicola", l’istituto dove insegno a Piove di Sacco (Padova), abbiamo iniziato un’esperienza educativa un po’ diversa: in termine tecnico la si può definire "educazione alla solidarietà", ma mi sto sempre più rendendo conto che più propriamente è educazione… alla vita.

 

È nata da una semplice richiesta, arrivata via mail in una sera di dicembre: «Ivana, ho bisogno di aiuto; dobbiamo costruire un pozzo e non so come fare». A mandarmi questo sos è suor Francesca Pittarello della congregazione di Maria Consolatrice, con la quale mi sento abbastanza spesso (per via delle adozioni a distanza che seguo in istituto) e che opera nella sua comunità in Burkina Faso. Percepisco non tanto la sua richiesta, ma una vera e propria chiamata ad allargare il cuore su questi nuovi fratelli e a farmi con lei carico di loro.

 

Ne parlo subito con i ragazzi, classe per classe: un po’ alla volta, attraverso il contributo di ciascuno, nasce l’idea di un torneo di calcio della solidarietà, che coinvolga l’istituto, ma anche le realtà esterne. Alla prima riunione organizzativa, cinque anni fa, siamo in sei: tre ragazzi e tre docenti. Partiamo ugualmente.

 

A cinque anni di distanza, i numeri sono un po’ cambiati: circa 200 ragazzi impegnati nella preparazione, suddivisi in 10 équipe, 10 docenti che collaborano, quattro tornei realizzati, nei quali abbiamo raccolto fondi per circa 5 mila euro all’anno. Abbiamo contribuito alla costruzione del pozzo, e successivamente acquistato strumentazione medica per un dispensario in Uganda e i pannelli fotovoltaici per avere l’elettricità; abbiamo costituito una farmacia presso lo stesso dispensario e quest’anno lavoreremo per arredare la scuola.

 

Le attività che i ragazzi svolgono sono molteplici: un laboratorio di manualità, vendita di dolci, ricerca di sponsorizzazioni, organizzazione di una lotteria e del torneo di calcio, preparazione di due feste che coinvolgono tutto l’istituto e il territorio, nelle quali i stessi ragazzi gestiscono il programma, esibendosi anche come artisti. In questi anni abbiamo giocato con gli alpini, i carabinieri, la polizia, i dirigenti della locale società sportiva, i vigili del fuoco.

 

In tutto questo, la cosa più notevole è costatare come i rapporti stretti tra docenti e ragazzi, tra l’istituto e le organizzazioni esterne sono diventati essi stessi educativi: è cresciuta infatti negli anni l’attenzione verso realtà più povere. I ragazzi hanno imparato un po’ alla volta a gestire in quasi completa autonomia le diverse tappe del progetto: i più grandi fanno scuola ai più piccoli, insegnando le abilità necessarie e i valori che le devono animare.

 

Circa due anni fa ho potuto comunicare ai miei alunni un sogno che conservavo dentro: andare in Africa, non come turisti, ma come persone che si impegnano concretamente per i più poveri. E vedendo intorno a me gli occhi dei ragazzi luccicare di entusiasmo, mi si riaccendeva la passione per quel sogno che a loro sembrava a portata di mano, realizzabile.

 

Sono stati due anni di travaglio; passo dopo passo, la strada si è aperta, facendomi toccare con mano un Dio che accompagna le fatiche e la ricerca dell’uomo. Dapprima cinque associazioni e successivamente altre due si sono rese disponibili per programmare un percorso di preparazione al volontariato in Africa: sono il Centro servizi volontariato di Padova, l’associazione Bashù, Angoli di Mondo, Amici dei popoli e l’ Azione mondo unito (Amu); per l’esperienza di volontariato sul territorio si sono rese disponibili la cooperativa "Germoglio" e l’associazione "Aiutiamoli a vivere". Con l’Amu in particolare c’è stata una proficua condivisione degli obiettivi e poi del programma operativo: desideravano iniziare proprio in Uganda, il Paese che aiutavamo ormai da alcuni anni, una azione di accoglienza e volontariato dei giovani.

 

Più difficile è stato il reperimento dei fondi necessari: la situazione della scuola in Italia e la congiuntura economica, con i tagli imposti alle regioni e alle province, e la crisi che ha investito le banche, non lasciavano prevedere nulla di buono. Un po’ alla volta invece, con piccoli, ma continui e provvidenziali contributi, siamo riusciti a raccogliere quanto necessario. Ero accompagnata dall’affetto e dal sostegno di tanti: gli amici del Movimento dei focolari, i colleghi, i ragazzi che non potevano partire…

 

 Il 3 settembre la partenza: siamo due docenti e cinque ragazzi della quarta. Per 18 giorni a Kampala, accolti dalla comunità dei Focolari, alloggiamo presso il Centro Mariapoli e andiamo ogni giorno a lavorare a Namugongo, il quartiere famoso per i suoi martiri, nel quale sorgono la clinica Zia Angelina e il Centro nutrizionale in costruzione, gestiti dai due focolari ugandesi.

 

L’impatto con la realtà africana non è facile, soprattutto per i ragazzi: «Facemmo in auto il tragitto dall’aeroporto fino al quartiere di Mbuia, luogo dove dovevamo alloggiare, situato a pochi chilometri dal centro di Kampala. Durante il viaggio – racconta Marco –  abbiamo visto con i nostri occhi realtà che da noi nemmeno immaginiamo possano esistere: strade di sterrato o comunque, anche se c’era l’asfalto, in condizioni pietose. Al posto delle nostre vetrine, sempre lucide e perfette, lì c’erano piccole costruzioni di fortuna, fatte di legno, grandi alcune meno di 2 mq… Molti vendevano frutta, alcuni carne e qualcuno anche oggetti come il telefonino».

 

«Già al primo impatto con questa terra – aggiunge Jessica – il paesaggio appare diverso, dominato dal verde e dal rosso; le case, le strade, le persone sono diverse. L’ho notato appena uscita dall’aeroporto, nel tragitto verso la nostra dimora, e inconsciamente ho guardato la realtà con gli occhi di una turista, impedendomi di farmi coinvolgere».

 

Incontriamo i bambini della scuola, lavoriamo per sistemare il centro, dipingendo, spostando materiali e altro. «Per noi ragazzi inizia realmente questa esperienza quando ci rechiamo per la prima volta a Namugongo; una cerchia di bambini saltellanti ci accoglie quando arriviamo alla Clinica Zia Angelina. In mezzo a loro – continua Jessica – non mi sento fuori luogo, anche se nulla ci accomuna. Torniamo a Namugongo ogni mattina, non più per intrattenere i piccoli, ma per svolgere lavori pratici, pitturare e zappare. Lavorare in gruppo è faticoso, ma è per questo che siamo qui, per aiutare ed essere utili agli altri».

 

«Vedere, giorno dopo giorno, la povertà, la situazione nella quale quelle persone vivono- afferma Monica – mi faceva male. Egoisti e materialisti come siamo, non facciamo altro che lamentarci perché vogliamo sempre di più, senza pensare che in un mondo non tanto distante da noi ci sono persone che vivono senza avere acqua potabile, cibo, vestiti, una casa, un posto dove dormire, senza poter andare dal dottore o a scuola».

 

Al pomeriggio torniamo al Centro Mariapoli e andiamo a svolgere alcune attività nella vicina Arcobaleno School, che accoglie circa 150 bambini delle elementari, molti dei quali in adozione a distanza: «Abbiamo insegnato loro dei canti anche in italiano, che hanno appreso con estrema velocità e bravura, nonostante – spiega Marco – la difficoltà di un’altra lingua».

 

Sono però soprattutto gli incontri con alcune persone a scavare in profondità dentro la nostra vita, a volte superficiale e materialista, provocando un cambiamento di mentalità: con Judith, insegnante alla Arcobaleno School, che vive in una zona povera ma dona tutta la sua disponibilità, allegria e profondità di fede; con Francis, il guardiano del Centro Mariapoli, che in un inglese a volte masticato riesce a trasmetterci la dignità e la bellezza della sua cultura e del suo popolo; con l’ambasciatore italiano a Kampala, che incontriamo in una assolata domenica mattina: la sua profonda cultura, ma anche l’amore per l’Africa lo promuovono sul campo come un vero educatore e docente; con don Benedetto Ssettuuma, un sacerdote ugandese al quale da anni inviamo i fondi raccolti dal torneo di calcio, e che ci accoglie nella sua famiglia, nel suo villaggio poverissimo ma dai solidi valori comunitari; con la famiglia Lappo, veneta di origine, da 34 anni in Africa, gli ultimi cinque in Uganda, a lavorare per "Cooperazione e sviluppo": la loro testimonianza è semplice e sconvolgente allo stesso tempo.

 

Ma insieme a tutto questo, ciò che ti colpisce al cuore è la testimonianza di un popolo che vive in grande povertà ma allo stesso tempo è capace di accoglienza, di condivisione, di altruismo; un popolo che ti fa capire cosa vuol dire essere comunità e sentirsi parte di una famiglia: «Vivendo tra quelle persone – racconta Pierfilippo – ho scoperto qualcosa che noi occidentali abbiamo ormai cancellato dal nostro stile di vita. Che senso può avere una vita vissuta tra la frenesia, il consumismo e l’individualismo, quando ci sono invece persone che con semplici gesti e valori condivisi, come quello della famiglia, della comunità e dell’amicizia, riescono tuttavia a darsi man forte nonostante vivano tutti nella stessa condizione di miseria?».

 

«In Uganda a regnare è la povertà, ma non solo: c’è anche l’umiltà, la generosità ed il rispetto che – dice Monica – fanno di questo un popolo unico e bello. Il sorriso dal volto non glielo toglie niente e nessuno; hanno la felicità dentro, stampata nel cuore, e riescono a trasmetterla a chi gli sta attorno. Qui tutti sono amici, fratelli, tutti sono mamme e papà; questa è solo una unica e grande famiglia. Vivono assieme, mangiano assieme, cercano di aiutarsi l’un l’altro nel migliore dei modi. Quando li saluti, subito ti danno la mano, altri s’inginocchiano, altri offrono doni. Questo è un popolo che nel bene e nel male ti fa vivere e provare mille emozioni diverse».

 

Cosa rimane dopo un’esperienza così è difficile da esprimere: «Credo sia una delle esperienze più significative che potrei fare nella vita, e impossibile da dimenticare. Come ogni esperienza fatta fuori casa e senza la propria famiglia e i propri amici – aggiunge la studentessa – è risultata, almeno i primi giorni, un po’ difficile, ma poi si è trasformata in qualcosa di straordinario. Arrivati in Africa, dovevamo ambientarci in un "nuovo mondo", riuscire a far gruppo tra di noi e aprirci a nuove persone, con le quali abbiamo condiviso gioie, emozioni e parte della nostra vita. Persone che ora ricordiamo con tristezza, perché sono lontane da noi. Impossibile dimenticare tutto ciò che abbiamo vissuto e provato, anche se non riusciamo a trasmetterlo e a farlo capire a chi ci ascolta. La voglia di tornare in Africa, la "nostra" Africa, è tanta!».

 

«Quando torni in Italia ti poni degli interrogativi e ti rendi conto che il tuo pensiero, dopo le tre settimane trascorse, è diverso. Ti senti cambiato», conclude Jessica.

 

Una volta tornati, sono nati spontaneamente alcuni incontri, in istituto: una sera abbiamo invitato il dirigente scolastico, i docenti e il personale Ata ad un incontro di condivisione. Attraverso il materiale video prodotto, corredato dalle testimonianze dei ragazzi, abbiamo raccontato qualche cosa di quanto vissuto, concludendo poi con un piccolo buffet cui tutti hanno contribuito… non era mai successa una cosa simile. In seguito circa 350 ragazzi della quarta e quinta hanno ascoltato una testimonianza semplice, ma penetrante. Molti quelli sono venuti a dirci la loro commozione, a chiedere di ripetere l’esperienza e comunicarci il desiderio di partecipare.

 

Ad uno di questi incontri ho invitato anche l’assessore alla Pubblica istruzione del comune di Piove di Sacco, che ci ha sostenuto, anche economicamente nella realizzazione del progetto. Non speravo che potesse sostenerci nella prosecuzione del progetto, invece, dopo aver sentito il racconto, si è impegnato pubblicamente a farlo anche  per il prossimo anno.

 

Alla fine di questa avventura, cosa rimane? Rimane negli occhi e nel cuore il colore rosso della strade e la polvere che penetra ovunque; l’incrociarsi di sguardi e di sorrisi, un modo di comunicare senza avere la stessa lingua; lo stupore perché lì i "monumenti" sono le persone, con la loro dignità e con la loro miseria; rimane la scoperta di quanto è bello donarsi agli altri; la gratitudine profonda per essere stati amati e rispettati da chi non ci conosceva, da chi ha voluto regalarci, anche solo per poco, un pezzo della sua vita. Rimane soprattutto, indelebile, una esperienza di fraternità vera, realizzata e realizzabile.

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