A due voci e a due tempi

Anche questo libro è stato scritto. È bene prenderne atto. Potrebbe essere una buona ragione per non affrontare lo stesso argomento. Potrebbe essere una ragione buona per farlo. Tra le infinite storie raccontabili – riconducibili, secondo Borges, ad un numero finito di storie archetipiche ed illimitate – Stefano Jacomuzzi ha scelto di raccontare una di quelle archetipiche: la storia di Gesù. Ne è venuto fuori un libro, Cominciò in Galilea, di grande valore ed interesse per credenti e non credenti (differenza che nella letteratura dovrebbe scomparire). Se Stefano Jacomuzzi fosse vivo, scriverei questa recensione in forma di lettera, per ringraziarlo. Gli direi che il suo coraggio e la sua umiltà di credente, uniti all’esperienza di docente universitario e critico letterario, e ad una felice intuizione stilistica di sapiente narratore, fanno del suo romanzo un’opera che dovrebbe essere maggiormente conosciuta. Per fortuna, a dieci anni dalla prima edizione (Piemme), la San Paolo ne ripropone una nuova con un bel saggio di Claudio Magris in postfazione. Purtroppo, se scrivete su Google Cominciò in Galilea Stefano Jacomuzzi, vi appariranno solo una cinquantina di pagine di risultati. Se scrivete, invece, Codice da Vinci Brown Dan, di pagine ne appariranno duecentotrentaduemila. Il libro di Jacomuzzi gode nella rete di un due per mille della popolarità del Codice da Vinci. Gesù non si sposa con la Maddalena, non scopriamo verità sconvolgenti sulla vita dei primi discepoli. Solo storia nota. E qui cito di nuovo Borges che, da agnostico, considerava i quattro Vangeli un poema superiore alle altre storie archetipiche. Jacomuzzi sceglie la strada ardua della fedeltà alla tradizione, senza la pretesa di scrivere un quinto Vangelo. E fa quello che deve fare uno scrittore onesto: si cala nei personaggi (in questo caso storici), dà loro uno sguardo ed una voce, li accompagna con una trama nel tempo testuale e reale, invita il lettore ad un’esperienza letteraria, dunque sublime. Cominciò in Galilea è un libro a due voci e due tempi. Tutti i capitoli iniziano con la voce narrante di Andrea e finiscono con quella di Gesù. Gli stessi episodi evangelici vengono raccontati prima dal discepolo e poi dal maestro. Andrea li racconta al passato, il tempo classico della narrazione. Gesù li racconta al presente. Secondo la distinzione di Weinrych, ci sono tempi narrativi (imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo e remoto) e tempi commentativi (presente, passato prossimo, futuro). Questa distinzione si addice perfettamente al romanzo di Jacomuzzi. Andrea racconta quello che ha visto e vissuto accanto a Gesù. Raccontando, cerca di capire la missione e divinità dell’uomo che lo ha chiamato a seguirlo. La narrazione è il suo modo di illuminare i fatti che si compiono sotto i suoi occhi. Il racconto al presente di Gesù, invece, acquista la valenza di un commento fuori dal tempo degli avvenimenti dei quali lui stesso è protagonista. Quello che dice è stato, è e sarà; rivela, ad ogni episodio, una verità sull’uomo e su Dio. Attraverso il racconto di Andrea il lettore percepisce il fluire del tempo ed il dispiegarsi di un mistero. Attraverso quello di Gesù trascende il tempo, partecipando ai suoi stessi sentimenti, al suo dialogo col padre. La voce di Andrea è quella del discepolo per antonomasia. Decisione, mistero, provvisorietà, necessità vitale di Gesù, intessono i suoi racconti. C’è un passo da lui narrato che vale più di tanti discorsi sulla vocazione: Comprendevo soltanto adesso veramente ciò che era successo negli ultimi due anni, a me e agli altri. Eravamo andati dietro a lui, quasi insensatamente: c’era il lavoro, c’era la famiglia, gli affetti, gli impegni, le incombenze… Tutto lasciato cadere d’improvviso, come il contadino che abbandona l’aratro a mezzo campo e si allontana senza un perché. Vivevamo nel provvisorio, giorno dopo giorno, alla luce delle sue parole, del suo insegnamento, di cui non potevamo fare a meno, forse in attesa di vedere cosa sarebbe successo il giorno dopo, come sarebbe finita la nostra avventura. Così fu per me, almeno per tutto il primo anno che vissi con lui. Poi, a mano a mano, non furono solo le sue parole, le sue promesse, neppure i prodigi che egli compiva, ma proprio la sua persona a diventarmi indispensabile, come l’aria per chi non vuole morire soffocato. Gesù era diventato l’aria della mia anima. E allora cominciai a pensare che non fosse una fase della mia vita quella che stavo vivendo accanto a lui, ma la mia vita tutta intera, e che il resto, il prima, fosse stato soltanto una preparazione. E c’è la voce di Gesù. Questa era un’operazione difficile: dar voce all’uomo-Dio. Che voce ha? Conosciamo quella affascinante e ieratica dei Vangeli, ma nel libro di Jacomuzzi, Gesù dice anche altre cose, racconta, prega, parla col padre. È la voce di un uomo che conosce i sogni modesti e legittimi dei suoi simili: Lo so, Signore: alla tua rugiada vivranno i nostri morti, risorgeranno i loro cadaveri e quelli che giacciono nella polvere si sveglieranno ed esulteranno, ma la nostra povera immaginazione ti sa soltanto chiedere se siederemo ancora a tavola a dividerci il pane, ogni giorno, con quelli che abbiamo amato, con i quali abbiamo diviso nei giorni della terra il risveglio della luce e la caduta delle ombre sulle ciglia, la sera. È questo il regno di Dio che leggo nei loro occhi. È un povero regno, Signore, ma anch’esso giusto e santo. È la voce di un maestro che chiama i discepoli ad una storia impopolare e salvifica: Quale altra storia sono venuto a portare su queste strade! Un povero ed un mite non saranno mai eroi agli occhi del mondo. Forse verrà asciugata qualche lacrima, ristorato un affamato, consolato un afflitto… Povera storia senza clamori, la mia. Ma credo che i miei discepoli abbiano compreso che per essa il mondo continua a galleggiare, non precipita nel profondo, riesce ad ascoltare musiche diverse da quelle delle trombe di guerra, l’uomo sorride a chi gli passa accanto e non si sente più solo. È la voce di un Dio commosso davanti alla tenera e fragile fisicità dell’uomo: Proviamo insieme tenerezza e pietà per questo nostro corpo, glorioso e ferito, orgoglioso e punito. Tenerezza e pietà per la sua grazia fragile, che si macera nel sudore delle notti febbrili e trema come un passero sull’orlo della gronda nell’alba di neve; per i piedi doloranti lungo il cammino, e la piaga rossa della bocca, e gli occhi, i poveri occhi così belli in cui spunta la pena di vedere finire ogni cosa… Pietà e gioia, gioia, perché il suo Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in esso. E lo vuole sottrarre alla distruzione e ritrovarlo per i colloqui senza più pena. Nel libro di Jacomuzzi di brani intensi come i precedenti ne troverete tanti. Leggendo segnavo le pagine importanti. A fine lettura ne avevo segnate ventisei su quarantadue capitoli. Quello sull’adultera è forse il più bello, ma non lo citerò: va letto dall’inizio alla fine, a due voci e due tempi; niente frammenti per recensioni. Ecco, credo di aver assolto un obbligo morale. Se ci è dato di contribuire a far durare libri che potrebbero cambiare la vita, occorre tentare. È per questo che si legge e scrive, lo diceva anche Carver: Penso che la letteratura (…) ci possa far capire cosa ci vuole per essere davvero umani, per essere qualcosa di più grande di quello che in effetti siamo, qualcosa di meglio.

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