A chi interessano i carcerati?
Diciamocelo francamente, nella nostra testa un pensiero ronza e prevale sugli altri: in fondo se la sono cercata! E tanto basta per dedicarsi a pensieri più urgenti e pressanti.
Poi le cronache ci riportano a riconsiderare la nostra posizione e fatti di cronaca gravissimi ci obbligano a forzati schieramenti pro o contro, o ci impongono etichette inaccettabili tra garantisti e forcaioli.
Ebbene l’approccio corretto è un altro e deve partire da un dato di realtà. Il carcere è una triste necessità di cui non riusciamo liberarci e con la quale ci tocca fare i conti.
Intanto una costatazione: la prigione è sempre più presente nelle nostre società. In molti stati il numero di detenuti è nettamente aumentato e con esso la durata delle detenzioni. Ma i crimini violenti non sono diminuiti.Questo a riprova che il carcere non può essere una cura o il rimedio risolutivo di problemi quali droga, delinquenza minorile, ecc.
Basta guardare i risultati per convincersi che il carcere non ha una funzione terapeutica né riabilitativa. La riprogettazione della persona è un processo complesso e difficile che può solo essere stimolato, sostenuto e accompagnato. Anche perché, casi eclatanti di taluni personaggi, possono essere usati a dimostrazione dell’inutilità, per esempio, dei benefici penitenziari o delle misure alternative.
In Francia, è stato pubblicato un importante libro che tenta di analizzare la complessità penitenziaria: Prisons de France, di Farhad Khosrokhavar.
L’autore cerca di fare il punto sul complesso sistema di relazioni tra carcerati e carcerieri, sul modo in cui la prigione ridefinisce al suo interno i gruppi, sugli effetti della prigionia sulla mente degli individui. Si tratta di effetti devastanti, la cui gravità è proporzionale alla durata della pena, che raramente erano stati descritti in modo così chiaro e che oggi, non c’è da sorprendersi, catalizzano anche i processi di radicalizzazione politica o religiosa.
C’è però un dato di fatto su cui non si riflette abbastanza: che ce ne viene, come cittadini, a tenere in piedi un sistema siffatto?
Sarebbe come tenere in piedi un ospedale che non guarisce, che produce più malati che guarigioni. Eppure si reclama sempre più carcere anche se ne constata il fallimento.
La prospettiva può cambiare quando noi incontriamo la persona carcerata. Nessuno può girare lo sguardo dall’altra parte di fronte ai crimini che vengono commessi. I processi vanno celebrati e le condanne vanno eseguite. Ma non basta. Occorre lavorare seriamente e mettere in campo le iniziative necessarie per preparare l’uscita da carcere e il ritorno in società sin dall’ingresso in carcere.
È questo che come cittadini ci interessa: il ritorno in società.
Perché se il condannato torna peggio di prima, come cittadino sono doppiamente vittima. Vittima del reato punito e vittima dei reati che saranno commessi.
Inoltre, occorre dirselo con franchezza, fino a quando in questo contesto non si sarà una seria attenzione alle vittime, i carcerati non godranno di una piazza favorevole. In questa direzione vanno letti i dati sugli ammessi ad alcune misure alternative. A dicembre le persone messe alla prova sono state 6.557 e i condannati che svolgono lavori di pubblica utilità sono 5.954.
Il lavoro di pubblica utilità è una sanzione penale consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato.
Tale sanzione, inizialmente, prevista nei soli procedimenti di competenza del giudice di pace, dal 2000, trova, a legislazione vigente, applicazione anche nei casi di violazione del Codice della strada, legge sugli stupefacenti oltre che come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova o come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena.
Per far svolgere il lavoro di pubblica utilità, il magistrato richiede una copertura assicurativa per eventuali infortuni e responsabilità civile verso terzi. Molti enti estendendo ai condannati la copertura assicurativa prevista per i volontari.
Molto opportunamente si è risolto un problema che rischiava di far fallire queste possibilità alternative al carcere. Erano incominciate delle pressioni sui soggetti che si avvalevano dei condannati a svolgere lavori di pubblica utilità, per via della mancata copertura assicurativa da parte dell’Istituto nazionale infortuni sul lavoro (Inail). Questo ente appellandosi alla dicitura di “lavoro” di pubblica utilità esigeva somme ragguardevoli anche per periodi passati ritenendo non sufficiente la copertura assicurativa che parecchi enti hanno per i propri volontari.
La legge finanziaria, infatti, ha finalmente ricompreso nella platea dei destinatari della copertura assicurativa Inail, prevista per i volontari impegnati in progetti di utilità sociale, anche i soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità.
Avere la possibilità di svolgere un lavoro di pubblica utilità per i condannati di reati non troppo gravi (violazioni del codice della strada, tossicodipendenti condannati per un reato di lieve entità, condannai ammessi alla liberazione condizionale) è una importante occasione per venire a contatto con realtà sociali a loro sconosciute ed è un modo concreto di avvicinarle al mondo delle vittime delle violazioni della legge penale. Attività sicuramente più rieducative di tante giornate in carcere.
Di fatto, bisogna partire da una grave carenza di risorse, come spiega Luisa Prodi, presidente del Seac (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario), «avere meno di 20 centesimi al giorno per la rieducazione significa che, se non ci fosse un po’ di volontariato in alcune carceri, non ci sarebbe assolutamente niente, proprio niente».
Nell’assoluta necessità di provvedere il cibo o generi di prima necessità come può essere una saponetta, la rieducazione diventa un bene di lusso ma così si esce fuori dalla Costituzione.
Come sottolinea il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella «l’istituzione carceraria rappresenta per lo Stato una necessità non derogabile, ma alcune volte anche una sconfitta.
Il carcere comunque non è – e non deve mai essere – il luogo in cui viene negata la speranza.
Chi esce dal carcere non sia un isolato, ma torni a sentirsi a pieno titolo cittadino e membro della nostra comunità nazionale. Per ciò servono anche, come è naturale, l’attenzione e la partecipazione della società civile, degli intellettuali, degli artisti, dei mezzi di comunicazione».