A che serve la letteratura?

Articolo

Che cos’è la letteratura se lo chiedono le epoche di grande fermento culturale, a che serve la letteratura quelle di grande crisi. Nel suo cantiere aperto Antonio Spadaro, che titola con le virgolette A che cosa serve la letteratura?, nella nostra epoca di crisi, non vuole fare discorsi né apocalittici né integrati (al mercato culturale), ma cercare risposte in progress: la letteratura serve fondamentalmente (…) a dire la nostra presenza nel mondo e, come uno strumento ottico, a interpretarla, a cogliere ciò che va oltre la letteralità del vissuto, a discernere in essa significati e tensioni fondamentali. Risposte a proseguire, come i buoni calciatori che toccano la palla non per lasciare ogni volta un segno nella storia, ma per muovere il gioco, cioè per gli altri. Su questo binario veloce il suo libro, in tre parti, affronta la domanda, poi la specifica sulla critica (questione della tradizione o del canone, e questione della critica militante sull’attualità), infine riflette con bella apertura laica – nel senso vero e non fazioso della parola – sul servizio della letteratura all’esistenza cristiana, quotidiana e culturale. Posto il dilemma: letteratura come dilettevole/ delittuosa menzogna (G. Manganelli) o come vita (C. Bo), Spadaro inclina, con tutta la mia simpatia, alla radicale indicazione fornita dal grandissimo poeta lirico Paul Celan sulla verità della poesia (e della letteratura): patente d’infinito data a quanto è pura mortalità e vanità. Ciò significa, chiosa esattamente l’ autore, che la letteratura trova le parole in cui ci troviamo al di là di noi stessi, risvegliandoci dal nostro dormire per paura di affrontare la verità della realtà. Di più, la lettura di una tale letteratura legge il lettore e lo immerge in un mondo di significati dal quale è più facile leggere ciò che ci è intorno e dentro in un modo nuovo, più profondo, interiore, fine, sottile. La letteratura forma uno spirito veramente umano. Così la letteratura diventa un rapporto, non più solo un testo da decifrare; come nell’esperienza poetica e in quella mistica (ottime considerazioni al riguardo, con affinità e differenze). Correlativamente, il servizio della critica è non di demiurgico giudizio, ma di cura di tre territori: quello della formazione della coscienza civile, quello dello studio del processo storico di ricezione di un’opera letteraria, che ne comprende il destino di incarnazione negli uomini-lettori, e quello dell’identità, della coscienza e anche della ‘spiritualità’ personale, legata alle diverse visioni del mondo, ai vissuti interiori, all’esperienza. dello stare al mondo e alla ricerca dei significat. Nella terza parte, sulla scorta di acute analisi di F. O’Connor (Nel territorio del diavolo) e di K. Rahner (Nuovi saggi, II), per il quale il cristianesimo veramente profondo e una poesia veramente grande, pur non essendo la stessa cosa, hanno tra loro un’intima affinità; e, soprattutto, essere cristiano, anche per la letteratura, al di là del credere o no significa essere marcato ontologicamente da Cristo, Spadaro giunge a queste affermazioni, sul cuore della letteratura, che è la poesia, riguardanti i due temi anzi le due forme massime dell’esistenza (anche per chi cristiano non è, o non sa di essere): il volto universale di Cristo e il viaggio di ogni uomo nella storia: La capacità e l’esercizio di percezione della parola poetica è (…) un presupposto per ascoltare la parola di Dio. (…) Ciò che è poetico nella sua ultima essenza è presupposto per il cristianesimo. (…) Ma la poesia grande esiste soltanto là dove non c’è spazio per il borghese, che sfugge per paura agli abissi dell’esistenza, rifugiandosi in quella superficialità nella quale non s’incontra il dubbio, ma neppure Dio. Sottoscrivo caldamente.

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