A 100 anni dal Concilio di Shanghai
I due convegni si sono distinti per un taglio leggermente diverso: il 20 maggio 2024 presso l’Università Cattolica di Milano e, il giorno successivo, alla Pontificia Università Urbaniana, a Roma. Squisitamente accademico quello di Milano e più di carattere diplomatico quello di Roma. Entrambi, comunque, stimolanti per il dibattito in corso da anni fra Santa Sede e governo di Pechino sulla lenta via della normalizzazione dei rapporti.
L’occasione per queste riflessioni è stata offerta dal centenario del cosiddetto Concilio di Shanghai, che si tenne nella città cinese dal 12 maggio al 15 giugno 1924, fortemente voluto da mons. Celso Costantini, all’epoca delegato apostolico, che per anni si adoperò affinché la presenza della Chiesa cattolica nel mondo cinese potesse essere più “locale”.
Infatti, fino agli anni Venti del secolo scorso solo un cinese era stato ordinato vescovo e la Chiesa in Cina appariva come una sorta di enclave straniera, di tipo coloniale, determinata da Paesi Europei e dai loro interessi. Tutto questo nonostante l’opera eroica di missionari francescani, carmelitani e gesuiti – e non solo – che arrivarono in Cina dal XIII secolo in poi e che espressero grandi profeti di inculturazione come il maceratese Matteo Ricci, e molti altri.
A cavallo tra XIX e XX secolo la situazione della Chiesa in Cina non poteva certo essere definita solamente con l’attributo di “coloniale”. Infatti, a fronte di numerosi esponenti cristiani indubbiamente allineati agli interessati del protettorato francese, altri si adoperavano, sulla linea espressa da mons. Costantini, per una indigenizzazione sia del clero che dell’episcopato, e perché i cristiani locali fossero autentici cristiani e autentici cinesi.
La convocazione del Concilio di Shanghai rappresentò una tappa decisiva in tale processo. Ha provocato, infatti, una profonda riflessione sulla situazione della Chiesa nell’immenso Paese asiatico e all’interno della cultura confuciana-taoista-buddhista da millenni radicata in quel contesto. Ciò che emerge dai documenti e dagli Atti del Concilio è la coscienza dei presenti – tutti o quasi europei o, comunque, occidentali – della necessità di liberare l’attività della Chiesa cattolica e le sue varie espressioni da quanto poteva farla apparire come entità para-coloniale, collusa e asservita a potentati stranieri.
Il ritornello ricorrente era quello di impegnarsi affinché il cristianesimo non fosse più visto come espressione ed emanazione di politiche occidentali imperialiste. I missionari stranieri vennero invitati ad abbandonare il loro coinvolgimento con le rispettive iniziative politiche dei Paesi di provenienza, con i quali erano invitati ad evitare di identificarsi. Si auspicava, per esempio, che le scritte e le insegne sulle chiese e le case missionarie fossero tutte in caratteri cinesi, evitando riferimenti a nazioni e popoli stranieri.
Si affermava la necessità che tutte le giuste leggi della Repubblica cinese potessero essere osservate non solo dai fedeli cinesi, ma anche dai missionari, che provenivano dall’estero. Le missioni erano, inoltre, invitate a non esporre bandiere o contrassegni di Paesi colonizzatori, ma solo quelli del Paese e delle amministrazioni locali. Il Concilio, tenutosi a Shangai, capitale commerciale della Cina, contribuì, poi, alla consacrazione di nuovi vescovi cinesi, che avvennero nel 1926 a Roma. Soprattutto, però, mostrò un rinnovato impegno a far sì che la missione fosse realizzata nella giusta prospettiva: che fosse, cioè, un annuncio ed una proposta e non una imposizione dall’esterno, percepita, fra l’altro, come attività coloniale.
Si comprende, quindi, come i due momenti di riflessione proposti a Milano e a Roma, abbiano visto impegnati in un dibattito ricco e complesso, sia sinologi competenti, attenti a una ricostruzione storica scevra da stereotipi, che diplomatici della Santa Sede. Il Card. Parolin, Segretario di Stato, ma anche l’asiatico Card. Tagle, che dirige il Dicastero per l’Evangelizzazione, hanno offerto contributi ricchi non solo di ricostruzione storica, ma anche di tentativi aperti alla delicata situazione attuale della Chiesa in Cina e dei rapporti con il Vaticano.
Significativa anche la presenza dell’attuale vescovo di Shanghai, mons. Giuseppe Shen Bin, il cui trasferimento deciso dal governo cinese – senza una previa consultazione con il Vaticano – aveva creato, lo scorso anno, non poche tensioni, sanate, poi, da Papa Francesco che ha “regolarizzato” la posizione del vescovo. Sia il vescovo della più importante diocesi cinese che i rappresentanti del governo e del mondo accademico della Repubblica Popolare hanno più volte sottolineato una parola-chiave, ricorrente nei discorsi ufficiali del Presidente Xi Jinping e dell’attuale amministrazione: “sinicizzazione”. Si tratta di un vocabolo assai delicato che è stato declinato partendo da quello di “adattamento” – processo messo in moto dalla scuola dei gesuiti il cui rappresentante principale è stato Matteo Ricci –, passando a quello più moderno di “inculturazione”.
Si tratta di un dibattito ancora aperto, con punti che trovano le due parti consenzienti, ma accanto ad altri che sono percepiti come ostacoli ad una piena regolarizzazione dei rapporti. In tal senso, molto interessante e pragmatica la posizione espressa, in chiusura dei lavori alla Pontificia Università Urbaniana, dal card. Tagle, filippino con ascendenza familiare anche cinese, che ha sottolineato la necessità di far dialogare tali categorie nella prospettiva della fraternità, per non cadere nel rischio che «specificità locali degenerino in forme di chiusura in se stessi, introversioni incapaci di dialogo e dunque, alla lunga, sterili e infruttuosi ripiegamenti narcisistici».
«Le vicende dei fratelli cinesi – ha aggiunto il card. Tagle – hanno qualcosa di importante da mostrare e da condividere con la Chiesa universale. Ci possono essere problemi, incomprensioni, incidenti, ma non c’è mai tiepidezza e indifferenza rispetto al cammino della Chiesa in Cina».