A casa per l’eternità

Dalla dimora terrena a quella oltremondana. Il simbolismo delle urne cinerarie “a capanna” presso le primitive genti italiche. L’esemplare bronzeo da Vulci
Urna a capanna da Vulci, Museo di Villa Giulia

Da che mondo è mondo, l’uomo è fatto per abitare una casa, luogo protetto e scrigno di affetti familiari al quale aspira invincibilmente per l’intera sua esistenza, si tratti di un riparo nella roccia, di una capanna di frasche, di una tenda nomade, oppure di una costruzione solida in pietra o in mattoni. L’uomo religioso poi, che credeva nella sopravvivenza oltremondana, confidava di abitare anche nell’altra vita una casa, di cui quella terrena era solo un pallido anticipo. Non a caso nelle antiche necropoli sono state ritrovate tombe che riproducono in qualche modo, talvolta anche nei dettagli, le dimore dei vivi. Le quali, per i nostri lontani progenitori, non erano solo «l’abitazione materiale della famiglia, ma il fulcro delle tradizioni ed il santuario delle divinità domestiche. Il carattere religioso della casa fin dai tempi più antichi è dimostrato dal fatto che le primitive genti italiche diedero all’urna destinata a custodire le ceneri del defunto cremato la forma della capanna allora abitata dai vivi» (Maurizio Borda).

Personalmente, mi commuovono queste riproduzioni in miniatura così frequenti nei nostri musei, ma presenti anche in tante collezioni estere, spesso insieme ai corredi (vasi, armi miniaturizzate e ornamenti vari) con i quali venivano inumate. Tipiche dell’Etruria meridionale e del Lazio, queste urne dalla forma “a capanna” attestate nelle fasi finali dell’età del bronzo e delle prime dell’età del ferro (IX-VIII secolo a. C.) sono una preziosa testimonianza per conoscere l’architettura domestica protostorica, che a causa dei suoi materiali effimeri non ha lasciato tracce evidenti se non, sul suolo, le buche dei pali di sostegno della struttura in frasche e incannucciato.

Così non ci sono dubbi nell’immaginare queste abitazioni a pianta ovale o rettangolare, più raramente circolare, con un’unica porta sul lato corto, le pareti ricoperte da uno strato impermeabilizzante di argilla e il tetto, conico o a doppio spiovente, costituito da un’intelaiatura anch’essa lignea rivestita da frasche, e con due aperture simmetriche sotto la trave di colmo per consentire la fuoriuscita dei fumi del focolare e l’areazione.

Veri reliquari che conservano ciò che resta di un essere umano, queste urne “a capanna” sono realizzate per lo più in ceramica d’impasto. Ma ne esistono anche in bronzo laminato e fuso, indice di grande ricchezza. Un esemplare bronzeo tra i più belli, se non il più bello in assoluto, è esposto nella sala 2 del Museo di Villa Giulia, a Roma. Datato all’VIII secolo a. C., proviene dalla necropoli dell’Osteria di Vulci, che fu una delle più importanti città-stato dell’Etruria con spiccata vocazione marinara e commerciale, i cui resti si trovano nel Viterbese. Di grande finezza ed eleganza per le sue decorazioni a sbalzo, testimonia da una parte l’alto livello tecnologico raggiunto dagli artigiani vulcenti, dall’altra invita a riflettere sulla concezione sacrale di tipo votivo del rituale funerario.

Rappresenta una capanna a pianta ovale, le cui pareti sono ritmate a intervalli regolari da travi a sezione quadrangolare; il portello rimovibile, fissato ad un lato con due anelli, dall’altro è fermato con una verghetta mobile; sul tetto displuviato s’incrociano sei coppie di travetti terminanti a forma di ocherelle (se non piuttosto di serpente, venerato genius loci dell’antichità); la trave di colmo presenta un’apertura sulle due fronti; anellini e catenelle pendenti dalla gronda rimandano al rituale della “vestizione” dell’ossuario mediante un tessuto adorno di applicazioni metalliche. Decora questo esemplare il motivo a sbalzo della “barca solare”, mutuato dall’Europa centrale e dai Balcani in ambito etrusco e presente specialmente a Tarquinia: rappresenta stilizzato il disco del sole nel suo tragitto dal sorgere al tramonto, a simboleggiare il viaggio di purificazione dell’anima verso la sua rinascita in una nuova vita ultraterrena.

Non sappiamo a chi appartennero le ceneri di questo magnifico reperto. Certo ad un importante personaggio di Vulci, un membro aristocratico di quella comunità. Quale sia stato il suo vissuto reale, la rappresentazione – in un oggetto legato alla sfera funeraria – della casa in cui abitò ci parla tuttavia di vita, di aspirazione a quella dimensione domestica intima e serena che è comune all’uomo di tutte le epoche.

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

 

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons