A Brescia l’Ottocento

Per conoscere con un colpo d’occhio attento e non sbrigativo un secolo della nostra pittura

Basta entrare a Brescia nel bel palazzo Martinengo e passare in rassegna le cento opere che vanno dal Neoclassicismo di Canova al Romanticismo di Hayez, ai Macchiaioli di Fattori fino alla Belle Époque di Boldini. Senza dimenticare i “simbolisti” Segantini e Previati, gli “impressionisti” De Nittis e Zandomeneghi e tanti altri.  Insomma, la pittura nostrana insegue la storia politica e sociale europea ma con tinte specificatamente italiane.

Ecco Appiani e Canova, campioni di un Neoclassicismo che sa tanto di Raffaello e della sua perfezione. Quadri di mito e di storia – le Tre Grazie del Canova – ma tutt’altro che freddezza, anzi. Basti pensare alle poesie contemporanee del Foscolo! Passata l’età napoleonica, dopo il 1820 è la volta della variegata stagione romantica. Rinasce la pittura di storia, medievale e rinascimentale, e qui il prediletto è Francesco Hayez: la sua Maria Stuarda che sale al patibolo è fastosa come l’opera di Donizetti, nobile e commovente. Fu un immenso successo. All’epoca (1827), melodramma e pittura andavano a braccetto. Ovvio, c’era anche tempo per i gentiluomini piuttosto dandy come Il collezionista, dipinto nel 1835 da Giuseppe Molteni e si sa che lo era pure un musicista come Bellini.

Dopo il 1860 con l’unità politica in atto, c’è naturalmente una reazione ai grandi ideali risorgimentali e nasce il movimento della Scapigliatura: basta quadri storici, basta accademie, dipingiamo come suggerisce l’ispirazione, senza disegno, con morbidezze   e spigliatezze di colore. È qui che Tranquillo Cremona-  che morirà troppo giovane – ci diverte con i ritratti di donne e uomini sfumati, a tocchi morbidi ed evanescenti, che suggeriscono più che dire un carattere. Sono tele dipinte con stile di farfalla, come appunto si intitola un suo quadro (1878), pennellate volanti sulla tela.

Intanto a Firenze sono nati i Macchiaioli, una stagione creativa originale e tutta italiana, per troppo tempo sottovalutata. Nomi come Fattori, Silvestro Lega, Signorini evocano tele di Maremma o di soldati (Fattori), scene di interni borghesi (Lega), vita reale (Signorini). Una poesia epica non troppo esaltante in Fattori, un intimismo lieve in Lega, gente che va e viene in Signorini. Non è il gran mondo, non ci sono battaglie storiche, c’è la vita di una Italietta che si sta “facendo”. Sono come poesie di Carducci, ma senza la sua retorica.

Poi, sugli anni Ottanta Segantini e Previati, ed amici, inventano la pittura “divisionista”, quella dei colori puri, dati a trattini per assorbire il più possibile la luce e caricare le tele di significati simbolici. Sono opere squisite. E’ sufficiente osservare l’Alpe di maggio (1891) di Segantini per sentirsi immersi nella chiarità di una montagna, dall’aria fresca, dalla luce pulita. Un incantesimo, un capolavoro.

Esplode infine Giovanni Boldini. Tra l’Italia e la Francia, fino al primo ‘900 il ferrarese evoca donne sgargianti con tocchi elettrici, crea un mondo vaporoso e frusciante, tra sete e velluti. Apparizioni, sogni. La principessa Marie Radziwill (1910) buca la tela con gli occhi dalle punte nere, il resto delle vesti rosa e rosse è un soffio. La mitologia della “donna fatale”- come Tosca di Puccini musicata nel 1900 – è fatta. E l’Italia è fatta. Forse.

Da Hayez a Boldini. Anime e volti della pittura italiana dell’Ottocento. Brescia, Palazzo Martinengo. Fino all’11 giugno (catalogo Silvana Editoriale).

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