Le origini del Carnevale
È carnevale, e chi non lo ama si deve rassegnare: è inevitabile, perché fa parte del ciclo della Natura. Prima di essere una festa di puro divertimento, il Carnevale è una festa che si lega al cammino antropologico umano, perché il Carnevale viene a febbraio, quando si festeggia la terra che sta per rinascere, i campi che si preparano a vincere le ultime zolle di terra invernale, il clima che diventa amabile. Ma anche perché ridere è di “buon augurio”: si ride ai matrimoni, alle cerimonie allegri, che festeggiano la vita contro la morte. Si ride, dove si spera in un buon “esito” futuro.
È la priorità che si crea quando, consapevoli di un pericolo, si spera che tutto vada bene, e questa speranza nasce con l’uomo fin da quando divenne “coltivatore” e non più cacciatore; fin dal neolitico, dunque, quando l’importanza di un buon raccolto divenne centrale per l’esistenza.
Le prime attestazioni di manifestazioni propiziatorie che abbiano lasciato tracce concrete si trovano ai primordi della civiltà latina nelle campagne dell’Italia del Sud, dove dei giovani agricoltori, con il solo ausilio di maschere improvvisate fatte di corteccia d’albero e di stracci, improvvisano canti e processioni tra i campi. Cantano rime sboccate, scherzano pesantemente, prendono in giro. Qual era il loro scopo? Solo uno: far ridere. Si pensava, infatti, che ridere scacciasse il male (e avesse, dunque, un valore apotropaico) e che, se gli dèi si divertivano, almeno per un po’ si distraessero dal mandare pestilenze e carestie. Molto prima della medicina moderna, che assegna alla risata un potere serotoninergico, ridere scacciava il male e riaffermava la forza della vita.
Questi canti sono assolutamente spontanei e improvvisati, non hanno uno studio alle spalle o un copione, ma solo l’impellenza della risata liberatoria. Ci voleva un soffio per morire di fame e stenti, quando tutto dipendeva dalla terra: una grandinata, un’epidemia, una carestia… ed era primario, quindi, spaventare e scacciare gli spiriti maligni che avrebbero potuto rovinare il raccolto. E così prendeva origine quello che, oggi, si chiama Carnevale.
Esistono diverse ipotesi riguardanti l’origine del nome. L’etimologia corrente la farebbe risalire al latino carne(m) levare, riferito al divieto di mangiare carne in Quaresima, subito dopo il Martedì grasso. Poi, se manteniamo la suggestione del valore apotropaico, possiamo prendere come buona l’ipotesi della provenienza babilonese, che fa discendere il nome da una processione su un carro (carn-naval) in cui troneggiava il carnevale salvatore, portatore di una nuova rinascita e vittorioso sulle forze del male.
Come diceva Ratzinger: «Il carnevale non è certo una festa religiosa. Tuttavia, non è concepibile senza il calendario delle festività liturgiche. Perciò una riflessione sulla sua origine e sul suo significato può essere utile anche per capire la fede». Qualunque sia l’origine e la circostanza, il Carnevale, si lega a questo periodo dell’anno, quello della rinascita, della terra e dell’uomo. Una nuova speranza che, ci auguriamo, stia per avverarsi.
L’eroe rimane sempre il carnevale e la sua allegoria, e le manifestazioni continuano negli anni e nei secoli e sopravvivono nelle future forme di civiltà, perché le esigenze primarie dell’uomo, in fondo, sono sempre le stesse. Così, le troviamo nelle prime città nascenti dopo il Medioevo dove, nelle osterie, i clerici vagantes inneggiavano ad una gerarchia rovesciata, rispetto a quella della Chiesa che essi avevano abbandonato per protesta. I canti sono più dotti e curati, perché i clerici sapevano il latino e avevano studiato, ma la volontà di cacciare il male con il divertimento e la risata, è la stessa.
E così, via via, fino alla Commedia dell’arte e dei suoi carrozzoni che girano l’Italia per fermarsi in un qualsiasi luogo ci fosse ascolto: piazza, o cortile di palazzo, o incrocio di strada. Bastava che ci fosse un pugno di pubblico per attivare la risata, prendersi gioco dei cattivi del luogo, augurare il bene.
Le maschere sono uno strumento essenziale nella recita dei vari ruoli; nascono con una funzione pratica che è, sì, cambiare ruolo e personaggio molto velocemente (uno stesso attore, poiché poteva cambiare velocemente la maschera e recitare più ruoli), ma soprattutto per farsi sentire, da un pubblico vasto, vociante e indisciplinato. Si pensa, infatti, che la parola “maschera”, porti con sé il significato anche della sua funzione pratica. Deriverebbe, infatti, da per-sonare, cioè far passare la voce attraverso la maschera, che, per legge fisica, la amplifica.
La cosa interessante è che, con i secoli, cambiano gli oggetti presi di mira (spiriti maligni, dei pagani dispettosi, diavolerie varie), ma gli obiettivi sono gli stessi: se rido, il male che mi puoi fare va via. E con i secoli, nascono le “maschere fisse”: allora erano le Colombine, gli Arlecchini, i Pierrot; oggi, sono i personaggi di spicco in voga, o gli uomini politici, (come nel Carnevale di Viareggio).
Anche nelle sfilate moderne, o nelle sfarzose manifestazioni come quella del Carnevale di Venezia, la finalità non è poi così diversa da quella delle feste romane antiche: scacciare la paura. E l’unico modo sembra essere ancora quello di mascherarsi da qualcun altro, per nascondersi, o per essere come vorremmo che gli altri ci vedessero, o come vorremmo essere. Non è un caso che la maschera, nel latino classico, fosse indicata con il termine “persona”.
Già, proprio così. E l’intrigo di parole ci riporta a Pirandello: «Ogni persona è una maschera».
L’ambiguo binomio maschera-persona nasce da una favola del poeta Fedro: una volpe vede una grande maschera. È bella, colorata, appariscente, allegra. La volpe le va vicino, la annusa, cerca di mettersi in contatto con lei; «che testa bella!», dice. Ma la maschera è rigida come una corteccia d’albero, e non ha vita. La volpe si accorge allora che è un bluff. Sdegnata, se ne va, dicendo: «È bella, ma non ha cervello».
La morale? Le persone belle spesso non hanno cervello, ma anche le maschere sono “vuote”, non hanno dentro vera sostanza. Le maschere sono quello che ognuno vuol mettere dentro: in origine sono una scorza vuota da riempire. C’è, in questa riflessione, la critica alla ragione: mettiti pure la maschera, ma non sarai mai la maschera. Ricordati che sei un falso.
Ma, direbbe qualcuno, maschera non voleva dire “persona”?
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