Afghanistan, il viceministro degli Esteri chiede l’accesso delle donne all’istruzione

Nei giorni scorsi, durante un evento pubblico, il vice ministro degli Esteri talebano, Sher Mohammad Abbas Stanikzai, ha esortato i leaders dell’Emirato islamico ad abolire i divieti che limitano l’accesso all’istruzione femminile in Afghanistan
Il mullah Baradar Akhund seduto nel palazzo presidenziale circondato da miliziani armati dei talebani in Afghanistan. ANSA/ YOUTUBE

Il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan, ha richiesto un mandato di arresto nei confronti della guida suprema dei talebani, Haibatullah Akhundzada, e del giudice capo dell’Emirato islamico Abdul Hakim, “penalmente responsabili per il crimine di persecuzione nei confronti delle ragazze e donne afghane, delle persone che i Talebani percepiscono non conformi alle proprie aspettative ideologiche di identità di genere o espressione o alleati di donne e ragazze”.  Una giuria di tre giudici si pronuncerà su questa richiesta, secondo procedure che richiedono in media tre mesi. Meri tentativi, si potrebbe obiettare, ma che vanno comunque visti come forti segnali dei meccanismi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani fondamentali e del rapporto fra gli Stati.

A tale proposito può essere utile un breve cenno al lungo processo di codificazione delle relazioni tra i vari attori del sistema internazionale, per valorizzarne i passi compiuti e leggerli come vettori di speranza. Il diritto internazionale, che affonda le sue radici nel mondo antico, con norme e consuetudini che regolavano per esempio i rapporti commerciali, si è delineato più precisamente nel XVII secolo con la nascita degli Stati nazionali. Ma decisivo punto di svolta è stata la creazione nel 1945 delle Nazioni Unite. Trattati e convenzioni, firmati e ratificati dagli Stati membri, regolano le questioni di comune interesse: politica, commercio, sport, cooperazione allo sviluppo, pace.

Di particolare attualità sono la normativa sul comportamento degli Stati durante le ostilità, il diritto umanitario, e i vari trattati a tutela dei diritti umani. Responsabilità e giustizia sono stati fin dall’inizio aspetti cruciali. Sin dal 1948 l’Assemblea generale dell’Onu, nella Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio, aveva previsto la possibilità per gli Stati di deferire i giudizi sui crimini di genocidio ad un Tribunale internazionale appositamente costituito. Dopo la seconda guerra mondiale vennero infatti istituiti Tribunali militari chiamati a giudicare i capi nazisti nel Processo di Norimberga e quelli giapponesi a Tokio. Nel 2002 lo Statuto di Roma, ratificato da 124 Paesi, ha dato vita alla Corte penale internazionale (Cpi, già Corte internazionale permanente di giustizia, 1921-1949), istituzione deputata a perseguire individui accusati di atti universalmente riconosciuti come criminali, la cui portata è internazionale e non può essere affrontata a livello locale: crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio, tortura.

Oggi esiste un mandato di arresto per il premier israeliano Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Gallant, nonché per il capo militare di Hamas, Deif. L’analogo provvedimento, che nel marzo 2023 ha raggiunto il presidente Vladimir Putin non ha avuto seguito. Stati Uniti, Israele, Russia e Ucraina non sono membri della Cpi, Cina e India non ne riconoscono la giurisdizione. Ciò significa, ad esempio, che Netanyahu potrà viaggiare in molti Paesi del Medio Oriente senza paura di essere arrestato perché non hanno aderito allo Statuto di Roma. Eppure, anche se l’attuazione è ardua, c’è un valore storico-pratico e non solo simbolico in questi atti. La comunità internazionale si pronuncia su crimini contro l’umanità e si adopera per impedire agli accusati di ripeterli. Presa di coscienza, speranza.

Torniamo all’Afghanistan. Nei giorni scorsi, durante un evento pubblico, il vice ministro degli Esteri talebano, Sher Mohammad Abbas Stanikzai, aveva esortato i leaders dell’Emirato islamico ad abolire i divieti che limitano l’accesso all’istruzione femminile in Afghanistan: “Chiediamo di nuovo alla leadership di aprire le porte dell’istruzione. Stiamo commettendo un’ingiustizia contro 20 milioni di persone su una popolazione di 40 milioni, privandole di tutti i loro diritti. Questo non è nella legge islamica, ma nella nostra scelta personale”.  Ricordiamo che dalla presa di potere, il 15 agosto 2021, i talebani hanno progressivamente e rapidamente iniziato a limitare i diritti delle donne. Hanno abolito l’istruzione superiore per le ragazze e sono stati chiusi anche gli istituti di formazione professionale sanitaria, l’unica possibilità che era loro rimasta per compiere studi universitari. Secondo le Nazioni Unite, a tre anni dalla caduta di Kabul, è stato negato l’accesso all’istruzione secondaria ad 1,4 milioni di ragazze. L’Afghanistan è attualmente l’unico paese al mondo in cui l’istruzione secondaria e superiore è severamente vietata alle ragazze, a partire dai 12 anni.

Già nel 2022 e nel 2023 Stanikzai aveva rilasciato dichiarazioni esplicite, ma secondo gli esperti è la prima volta che un alto funzionario prende di mira l’attuale approccio del governo messo in atto dalla guida suprema. Il vice ministro degli Esteri, durante l’evento pubblico in cui ha richiesto formalmente la riapertura delle scuole per le ragazze, ha posto l’accento sul “rispetto della volontà popolare”, sottolineando che sulle questioni più importanti si dovrebbero svolgere consultazioni che coinvolgono “il Consiglio direttivo dei talebani” (la “shura”, che pare non essere stato consultato per tale decisione). Intervento coraggioso. Uno dei segnali che alimentano un’ostinata speranza, che non si arrende. E, come ripete papa Francesco: la speranza non delude.

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