Il destino manifesto degli Usa secondo Trump

Un programma annunciato e messo in atto con determinazione quello del presidente statunitense tornato alla Casa Bianca con una linea politica muscolare anche nei confronti dei Paesi “amici”. Una sfida per l’unità europea di fronte alla strategia divide et impera già vista con la Brexit  
Donald J. Trump EPA/ERIK S. LESSER

Molto si sta dicendo e scrivendo sulla nuova presidenza Trump e sui programmi da lui annunciati che puntano a quello che era stato il suo motto in campagna elettorale, cioè America first, a far tornare gli USA al livello indiscusso di prima superpotenza mondiale (economica, politica e militare), a dispetto delle sfide lanciate dalla Cina e più in generale dai BRICS.

Questa impostazione politica trae le origini dal concetto di Manifest destiny (concetto ottocentesco sul destino manifesto per cui gli USA hanno la missione di espandersi) e dalla cosiddetta Dottrina Monroe (relativa all’asserzione per cui gli europei non dovevano avere mire sul continente americano, da cui anche una tendenza all’isolazionismo) e oggi si esplica in una serie di decisioni attuate e di propositi dichiarati da Trump già al suo insediamento alla Casa Bianca.

Un primo punto fermo del suo approccio politico è quello della lotta all’immigrazione, tanto che ha abolito subito lo ius soli (l’acquisizione della cittadinanza USA per nascita) e avviato una serie di piani per cacciare dal suolo nazionale gli stranieri non regolari. Anche se al momento in cui scriviamo tale abolizione è stata fermata da un giudice federale per motivi di incostituzionalità, la linea tracciata da Trump (per inciso nipote di un immigrato tedesco dell’800) è ben chiara: gli immigrati irregolari vanno individuati in tutti i modi e cacciati via immediatamente, tanto che già circolano filmati di uomini incatenati fatti salire su aerei militari per essere deported (deportati, esiliati, esiliati) nei loro Paesi di origine, se se ne conosce la loro nazionalità.

In secondo luogo, d’altronde, le sue intenzioni erano già note durante la sua prima presidenza, poi ribadite in campagna elettorale, per cui l’uscita dall’OMS e dagli accordi di Parigi sul clima erano largamente previste, date le valutazioni critiche sue (e della destra statunitense neocons più oltranzista) sulla gestione della pandemia e scettiche sui cambiamenti climatici.

Quindi dal punto di vista finanziario, essendo gli USA il primo contributore (con circa un miliardo su un budget totale di 6,5), si avrà anche un risparmio sulle quote versate all’OMS e dal punto di vista economico più generale non ci saranno vincoli ambientalistici considerati un freno per l’industria automobilistica, per le società petrolifere, per il settore estrattivo, ecc. dando via libera all’utilizzo delle fonti non rinnovabili, carbone compreso.

Insomma, il suo è un approccio fondato su una visione prevalentemente economica e “muscolare” dei rapporti internazionali tanto che subito ha minacciato la UE (e anche la Cina) di attivare dei dazi, dato lo squilibrio commerciale effettivamente esistente, che vede gli States esportare meno rispetto agli altri partner. Peraltro, dagli USA ci arriva il 50% del GNL (gas liquido) importato dalla UE nel 2023 e Trump preme per un ulteriore aumento dell’import europeo.

Analogamente si è espresso nei confronti degli alleati della NATO, colpevoli, secondo Washington, di non spendere sufficientemente per la difesa, costringendo gli USA ad un impegno gravoso per presidiare il Vecchio Continente¸ tanto che ha ipotizzato il ritiro di 20 mila uomini sui 100 mila attualmente stanziativi.

Ma se è vero che la spesa militare statunitense è la maggiore a livello mondiale (916 miliardi di dollari nel 2023), i Paesi europei della NATO sono i secondi (con 376 miliardi), superando di gran lunga sia la Cina (296  miliardi) e la Russia (109 miliardi).

L’enorme spesa militare di Washington, in realtà, è dovuta ad una precisa scelta politica fondata tradizionalmente sulla proiezione delle sue forze armate in tutto il mondo e con la dislocazione di innumerevoli basi (220 mila uomini e 642 basi in 170 Paesi, secondo uno studio del prof. David Vine dell’American University di Washington del 2021). Tanto che spesso si è usata la denominazione di “gendarme del mondo” ad indicare il ruolo assunto dalla potenza d’oltreoceano.

Considerato che all’interno della nuova compagine governativa di Trump diversi falchi propugnano un confronto particolarmente “muscolare” con Pechino, l’interesse prevalente è quello di concentrarsi sull’area dell’Indo-Pacifico, dove tra l’altro c’è il nodo di Taiwan (primo produttore mondiale di microchip con una quota del 60%) e da dove provengono anche le maggiori sfide dei BRICS.

Proseguendo nel solco del Manifest destiny e nella prospettiva di un’America first, Trump ha espresso anche la volontà di riprendersi il Canale di Panama, di annettere la Groenlandia e magari anche di far diventare il Canada il 51° Stato federato.

Il Canale di Panama è un chokepoint importantissimo dal punto di vista geopolitico ed economico: vi passano 140 mila container con un carico complessivo di 240 miliardi di dollari. Dato che a suo tempo fu costruito dagli USA che ottennero nei primi del ‘900 un contratto di gestione per un secolo, ormai scaduto da decenni, poi rinegoziato da Carter (ma con forti malumori repubblicani), ora la sua gestione è panamense.

Insomma è una gallina dalle uova d’oro e i rapporti cordiali del governo panamense con la Cina, con la CK Hutchison Holdings, azienda con sede a Hong Kong, che gestisce due porti all’entrata del Canale, sono motivi più che sufficienti per le rivendicazioni del neopresidente. Infatti, il Canale è diventato importante anche per la Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino, ora presente a Panama con forti investimenti.

In parte per le stesse preoccupazioni la Groenlandia, facente parte ma con autonomia della Danimarca, ha attirato le mire di Trump, dato che la rotta artica (proprio per i cambiamenti climatici e il conseguente scioglimento dei ghiacci) è diventata una via marittima commercialmente conveniente in quanto più breve, ma anche un’area d’interesse strategico ed economico anche per la Russia e la Cina.

Territorio ricco di terre rare (ben 43 sulle 50 considerate critiche dal Dipartimento di stato statunitense), ospita, a seguito di un accordo del 1951 un’importante base aerea statunitense a Pituffik (la Peterson Space Force Base), ma Washington potrebbe costruirne altre e dislocarvi ulteriori truppe, anche perché la Danimarca è un Paese alleato della NATO.

Continuando nei suoi propositi di MAGA Make America Great Again (far di nuovo grande l’America), Trump, con la sua consueta grinta, ha anche espresso l’idea di far diventare anche il Canada il 51° stato federale, visto che pure con Ottawa ci sono varie pendenze da risolvere: sbilancio commerciale (come con l’UE), questioni legati all’immigrazione e al traffico di droga.

Insomma, il neopresidente, forte sia del sostegno elettorale sia di un’ampia compagine governativa e di uno staff pienamente in linea, si muove deciso come un uomo d’affari con un proprio progetto politico che punta a rivendicare un’assoluta leadership mondiale, senza alcun particolare riguardo per Paesi amici, alleati o altro.

Lo si è visto nel suo approccio spregiudicato già nel 2019 rispetto ai curdi che avevano combattuto in Siria come alleati e lasciati poi alla mercé dell’esercito turco. Lo si rileva anche ora rispetto ai due conflitti in corso in Ucraina e a Gaza.

Se in campagna elettorale la guerra in Ucraina affermava che si poteva risolverla in 24 ore, alla prova dei fatti la questione appare più complicata. Comunque, data la sua volontà dichiarata di non proseguire la linea Biden e di disimpegnarsi nei limiti del possibile dal teatro europeo, tutto ciò fa sì che l’idea di mettersi ad un tavolo per una trattativa senza condizioni pregiudiziali stia coinvolgendo le due parti, lasciando all’UE la sua più volte conclamata scelta di proseguire eventualmente fino alla vittoria militare contro la Russia.

Le recenti dichiarazioni di Trump in merito al “trasferimento” del popolo palestinese in altri Stati vicini (Egitto e Giordania), applaudite dall’estrema destra israeliana, mostrano un’impostazione di tipo “coloniale” secondo cui i popoli che non interessano possono essere utilizzati e/o spostati sullo scacchiere mondiale senza alcuna remora.

In una fase di nuovi equilibri ed assetti, ci troviamo di fronte ad una virata importante nella politica statunitense che avrà serie ripercussioni a livello mondiale, a cui l’UE sarà in grado di rispondere rinnovandosi e presentandosi unitariamente? Oppure si muoverà in ordine sparso nel confronto con il neopresidente, che, in base al motto latino “divide et impera”, caldeggiò a suo tempo la Brexit?

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