Bronzi di Riace, la scienza si fonde nel mito
Se l’imperscrutabile sorriso della Gioconda, capolavoro rinascimentale di Leonardo Da Vinci è il simbolo più enigmatico di quanto la profondità dell’animo possa celare, altrettanto arcana è la patina di mistero che tutt’ora permea i Bronzi greco classici di Riace e le profondità del mare in cui furono ritrovati.
Le “patine” non solo di mistero ma anche quelle formatesi sulle leghe metalliche, sono dunque uno degli elementi maggiormente analizzati durante il complesso check-up a cui i due Bronzi sono stati sottoposti di recente.
«L’obiettivo del controllo scientifico – spiegano gli esperti dell’Istituto centrale per il restauro (Icr) – mira a rilevare e registrare, mediante indagini autoptiche e diagnostiche, la complessità delle patine presenti sui Bronzi».
«Una storia clamorosa…»
Sono dunque «le superfici delle due sculture – dicono dall’Icr – che a partire dal momento dell’esecuzione, passando per la giacitura in ambiente marino rivelano la lunga storia dei Bronzi».
«Una storia clamorosa e piena di colpi di scena» sottolinea il giornalista Paolo Di Giannantonio che ha di recente portato in teatro, insieme a Daniele Castrizio, professore di numismatica greco-romana e a Saverio Autellitano, visual designer, un’avvincente narrazione scientifica e mitologica sui misteri dei Bronzi di Riace.
«Il bronzo A – dice Castrizio – è Polinice, ha lo sguardo ostile e mostra i denti a mo’ di sprezzo per aver appena visto che il fratello Eteocle, il bronzo B, dal volto rassegnato alla morte e dallo sguardo basso, calza sotto l’elmo corinzio, la kyne cioè la cuffia che connota il potere regale».
«… E piena di colpi di scena»
A questo punto Castrizio e Di Giannantonio con grande fiuto archeologico si mettono sulle tracce di un sarcofago custodito a Villa Doria Pamphilj a Roma e notano che esso raffigura in cesello il gruppo dei “Sette di Tebe” e ha tra i protagonisti due strateghi, uno “arrabbiato” e l’altro con lo sguardo basso, che hanno rispettivamente le stesse sembianti del bronzo A Polinice e del bronzo B Eteocle.
L’autore del sarcofago realizzato nel II sec. d.C. aveva dunque visto i Bronzi a Roma dove in età augustea erano stati a lungo in bella mostra. Ma come erano arrivati i Bronzi a Roma e, soprattutto, chi e dove li aveva realizzati?
I “nostri” ripartono sempre dalla guerra di Tebe narrata questa volta in un’opera scritta nel VI sec. a.C. dal poeta Stesicoro «che – dice Castrizio – a un tratto descrive una clamorosa scena che rimarrà impressa per sempre nella mente di Pitagora di Reggio detto “Reggino”.
Costui è uno scultore magno greco, diremmo oggi con orgoglio “calabrese”, che nel V secolo a.C. recatosi ad Argos nel Peloponneso e utilizzando appunto la “terra di fusione” di quel luogo, realizza una trasposizione bronzea a grandezza naturale della famigerata scena descritta da Stesicoro, e passa alla storia come il “più accreditato” oltre che magistrale autore dei Bronzi di Riace.
Tanto “clamore” per cosa?
«Ebbene le fonti appena citate dimostrano che i bronzi realizzati dal Reggino non erano solo due ma un gruppo di cinque statue – ipotizza Castrizio – con a sinistra Polinice e a destra il fratello Eteocle; al centro c’era Euryganeia, loro madre con le braccia aperte mentre implora i figli a non sfidarsi in duello e vicino a lei ci sono la figlia Antigone e l’indovino Tiresia».
Le suppliche di Euryganeia sono vane. Tiresia lo sa già. Nulla può impedire ai due contendenti al trono di Tebe di sfidarsi nella tragica lotta fratricida e uccidersi vicendevolmente. «La guerra fratricida – fa notare Di Giannantonio – non porta da nessuna parte, infatti entrambi i Bronzi, Eteocle e Polinice muoiono, nessuno vince e tutti perdono, il mondo perde».
Eccolo dunque il messaggio clamoroso e attualissimo consegnato all’umanità dai Bronzi di Riace: l’inutilità della guerra fratricida di cui Polinice ed Eteocle sono stati inutilmente protagonisti, ed essi stessi nelle loro sembianti custodiscono un monito di sconfitta perenne per chiunque creda nella violenza invece che nella pace e nella concordia.
L’ultimo viaggio
«L’imperatore Costantino – concludono la narrazione Castrizio e Di Giannantonio – nell’edificare la seconda Roma, la trovò a Istanbul, l’antica Costantinopoli e decise di portare lì i due Bronzi ma l’imbarcazione che li trasportava non arrivò mai a destinazione perché affondò nel mare di Riace».
È proprio sui fondali marini di Riace che il ministero della Cultura pochi mesi fa, ricorrendo a tutte le più sofisticate tecnologie del “multibeam” e del “sub bottom profiler”, ha condotto insieme ai carabinieri subacquei messinesi, una campagna di scandagliamento nelle stesse profondità dove nel 1972 i due Bronzi vennero rinvenuti.
«Le ricerche in realtà – ha detto il Mic stesso – non hanno fatto emergere novità di interesse archeologico e culturale, ma le campagne di scavo sottomarino a Riace riprenderanno di sicuro», sperando di far luce sui tanti misteri che ancora permeano i due guerrieri argivi.
Nicosia da Comiso
Dati scientifici e narrazioni mitologiche navigano sui mari del tempo e della storia procedendo su rotte diverse e approdano a risultati evidentemente diversi, ma talvolta s’incontrano o addirittura si scontrano con tale forza che si “fondono” gli uni nelle altre.
Era il 1995 quando a Firenze, durante uno stage presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana ebbi come mentore uno dei più grandi maestri dell’archeologia italiana e capofila del team dei restauratori dei Bronzi.
Francesco Nicosia, nato a Comiso, un giorno mi disse: «Non prendere la scienza sempre come una verità rivelata né il mito sempre come pura fantasia. Per trovare le risposte ai misteri devi essere come un rabdomante che conosce geologia e storia, ma che senza le sue percezioni, senza il suo primordiale istinto e magnetismo verso il centro della terra non scoprirebbe mai niente!».
Il rabdomante cerca acqua e metalli e chissà che seguendo il suggerimento di Nicosia le prossime prospezioni archeologiche nel mare di Riace non portino davvero a un’altra sorprendete scoperta!
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