Quanto vale una vita umana?
Non è un gioco nuovo: quando sale la tensione sociale e politica, all’est come all’ovest, al nord come al sud, si tende a sopravvalutare il valore dei propri simili appartenenti a un determinato gruppo sociale, e a sottovalutare parallelamente quello di che non rientra nella nostra cerchia di riferimento. Questo squilibrio di valutazione, poco alla volta, porta alla creazione di categorie umane esistenti “sin dalla fondazione del mondo”, quelle cioè di avversari, antagonisti o nemici, di gente “al di là del confine”, o del mare, del fiume, della montagna.
L’aggressività umana lievita e s’incanala contro questa o quella categoria, salendo dall’avversità solamente pensata a quella verbale, poi alla pratica di atti di separazione d’ogni genere, fino talvolta a sfociare nell’aggressione fisica, individuale o collettiva, infrangendo leggi e norme scritte negli anni e nei secoli a protezione di una convivenza civile reale e benefica per tutta la società. Tali leggi tendono a essere aggirate e a perdere progressivamente la propria forza secondo cicli o ritmi che vengono studiati da storici, sociologi e psicologi, e persino dagli antropologi, per capire come fare a ritardare i cicli ricorrenti della violenza sociale.
Il caso Europa dopo la Seconda guerra mondiale è stato un esempio virtuoso che ha assicurato pace e stabilità per mezzo secolo, o giù di lì, cioè fino alle recrudescenze etnico-religiose violente scoppiate nei Balcani negli anni ’90 del secolo scorso. Anche se forse il vecchio continente pensava di avere ormai raggiunto un’immunità di gregge contro la violenza politica, purtroppo smentita dai fatti, con l’attuale crescita di sovranismi, nazionalismi, razzismi, antisemitismi, islamofobie, cristianofobie e via dicendo.
Nella crisi che coinvolge oggi Israele, Hamas ed Hezbollah, è tornata in auge una tale crudele contabilità tipica dei casi di guerra, che porta a quantificare quanto vale la vita dei miei contro la vita dei loro. Si pubblicano articoli e post raccapriccianti: la vita di un ostaggio adulto vale una dozzina di prigionieri politici palestinesi, mentre la vita di un soldato con la stella di Davide fa lievitare di 3 o 4 volte la cifra. D’altronde, alle 1194 vittime del 7 ottobre 2023 corrispondono le 64 mila vittime della successiva offensiva verso Gaza, secondo un recente studio di Lancet.
Non si può non tornare a via Rasella: per ogni soldato tedesco ucciso sono stati sacrificati 10 ebrei o partigiani, cosa che poi è avvenuta alle Fosse Ardeatine, seppure con qualche unità più del dovuto, o dell’annunciato: il pallottoliere nazista non era precisissimo. Mi si dirà, e mi dico io stesso: come è possibile paragonare il nazismo con lo Stato di Israele? Nel nazismo c’era esplicita volontà di sterminio del popolo ebraico – e sinti e rom… –, mentre oggi la situazione appare totalmente diversa, anche se la Corte Penale Internazionale ha dichiarato lo Stato di Israele – che da un paio d’anni da laico che era si è trasformato in Stato confessionale con la discussa legge del Basic Law – passibile di condanna per aver voluto, almeno in certi suoi esponenti, lo sterminio della popolazione palestinese. Anche nella guerra ucraina la guerra delle cifre è travolgente.
No, il discorso è diverso: nelle guerre, in tutte le guerre si svaluta il valore del nemico e si sopravvaluta quello degli alleati. Facendo così, la guerra si pone al di là di ogni filosofia o religione dell’orbe terracqueo, che valutano ogni essere umano come unico e irripetibile. Gli psicopatici sarebbero coloro che commettono una trasgressione che permette loro di abbassare il livello di ansia: hanno una tale scarsa stima di sé che hanno l’impressione di esistere solo se qualche nemico concentra su di sé la loro energia malata. Si svaluta il nemico perché si ha scarsa stima di sé, e quindi in realtà lo si sopravvaluta. Ciò accade anche per le etnie e per i popoli, mutatis mutandis.
Scriveva Umberto Eco, in un libretto non a caso intitolato Costruire il nemico: «Cercare di capire l’altro significa distruggerne il cliché senza negarne o cancellarne l’alterità. Ma, siamo realisti, queste forme di comprensione del nemico sono proprie dei poeti, dei santi o dei traditori (…). La guerra permette a una comunità di riconoscersi come “nazione” (…). La pace produce instabilità e delinquenza giovanile; la guerra incanala nel modo più giusto tutte le forme turbolente dando loro uno status (…). Ecologicamente, la guerra provvede una valvola di sfogo per le vite in eccedenza… Se è così, la costruzione del nemico deve essere intensiva e costante». Purtroppo, Eco ha proprio ragione, così vanno le cose. Ma non è detto che non possano cambiare.
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