Desaparecidos siriani

È dal 10-12 dicembre, pochi giorni dopo la fuga in Russia di Bashar al Assad (7 dicembre), che in Siria vengono individuate fosse comuni in cui le forze di sicurezza hanno sotterrato per anni i corpi di decine di migliaia di siriani fatti scomparire senza lasciare traccia.
Un'immagine dei funerali di Mazen al-Hamada, attivista siriano ucciso nel carcere di Sednaya, il 12 dicembre 2024EPA/HASAN BELAL

In Siria si susseguono quasi ogni settimana da circa un mese e in diverse località i ritrovamenti di fosse comuni dove le forze di sicurezza del regime hanno sepolto migliaia di cadaveri di mafqudin, i desaparecidos siriani. Secondo la stima di alcune ong, le persone scomparse dall’inizio della rivolta, nel 2011, sarebbero circa 150 mila.

Una delle prime fosse comuni individuata è stata segnalata dagli abitanti di Izraa, una trentina di km a nord di Daraa, nel sud, verso il confine con la Giordania. La fossa si trova in una fattoria che era il quartier generale della Sicurezza Militare del regime. Ben presto sono state segnalate altre sepolture comuni a Najha e a Qutayfah, qualche decina di km a nord di Damasco. In queste due località le fosse hanno rivelato la presenza di migliaia di corpi: di uomini, donne e bambini. L’opera di identificazione dei cadaveri è immane, ci vorranno anni, soprattutto per cercare di dare a ciascuno un nome. Ma non sarà possibile un’identificazione certa per tutti: molti corpi con un numero scritto a pennarello sono stati infilati in sacchi di plastica bianchi, ma altri sono stati bruciati e i resti stipati in sacchi marrone. In altri casi, come per i cadaveri ammucchiati in alcuni locali del famigerato carcere di Saydnaya, è stato possibile dare un nome alla maggior parte dei morti.

Tra i cadaveri riconosciuti, torturati e uccisi forse nei giorni precedenti il crollo del regime, c’era quello di Mazen al Hamada, un attivista ben noto che si era rifugiato in Olanda nel 2013 e per anni (fino al 2020) si era impegnato a testimoniare pubblicamente le atrocità che aveva visto con i propri occhi e le torture che aveva subito durante la detenzione. Nel 2020 era rientrato in Siria, a causa di minacce contro alcuni suoi familiari. Nonostante le assicurazioni di “immunità” fornitegli dai Servizi di sicurezza, era stato arrestato direttamente all’aeroporto e immediatamente internato nel “mattatoio” di Saydnaya. Al suo funerale, a Damasco il 12 dicembre scorso, c’erano oltre 3 mila persone.

Tra i numerosi siriani all’estero impegnati nell’opera di documentazione dei crimini del regime va segnalato Mouaz Moustafa. Nato a Damasco, era giunto adolescente negli Usa nel 1995, con la famiglia. Divenuto cittadino statunitense, si è laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali ed ha lavorato per alcuni anni nello staff di 2 parlamentari dell’Arkansas e con alcune istituzioni politiche internazionali. Nel 2011 è diventato direttore esecutivo della Syrian Emergency Task Force (Setf), un’ong che si era appena costituita per sostenere, con interventi umanitari, l’opposizione siriana al regime di Assad. A Idlib, la Setf ha realizzato una scuola per orfani, un panificio e un centro di sostegno e formazione per le donne. La Seft ha inoltre curato il famoso “Rapporto Caesar” contro il regime, poi verificato e ampliato da Human Rights Watch. Il nome Caesar deriva dallo pseudonimo di un fotografo, ex ufficiale della Polizia Militare siriana, che nel 2014 riuscì a fuggire dalla Siria portando con sé, su memory card, 55 mila foto (2011-2013) di prigionieri e di vittime del famigerato mukhabarat, le forze di sicurezza che avevano, oltre a compiti di spionaggio, anche quello di reprimere il dissenso.

Il sito della fossa individuata a metà dicembre a Qutayfah, a nord di Damasco, è stato ispezionato dalla Setf. Mouaz Moustafa, che si è recato sul posto, stima che la fossa sia profonda 6 o 7 metri, larga 4 e lunga tra i 50 e i 150 metri e che contenga migliaia di corpi.

Nei giorni scorsi sono state rinvenute, anche tramite immagini satellitari e documentazione precedentemente raccolta, altre fosse comuni. Tre, individuate nell’ultima settimana di dicembre, si trovano nei dintorni di Aleppo, a Khan al-Assal e Al-Naqarin. Conterrebbero diverse migliaia di corpi ciascuna. Non si sa, evidentemente, quante siano in totale le fosse comuni in Siria. I Caschi Bianchi (White Helmets), la famosa organizzazione umanitaria legata ai ribelli e operante prima ad Aleppo e poi a Idlib, affermano di avere notizia di almeno 13 siti, ma secondo la Commissione internazionale per le persone scomparse (Icmp), una ong con sede all’Aia, potrebbero essercene circa 66.

Secondo un altro testimone diretto, che collabora come “Caesar” con la Setf ed è noto con lo pseudonimo di “Gravedigger” (scavatore di tombe), i cadaveri scaricati dai camion anche 4 volte la settimana avevano numeri impressi sul petto o sulla fronte. Il testimone ha operato nel seppellimento delle vittime dal 2011 al 2017 sia a Najha che a Qutayfah.

Nell’intervista radiofonica del 9 dicembre 2024 (Aspen Publicradio – Usa), poco prima di partire per la Siria, il direttore del Setf, Moustafa, ha detto a proposito dei lager del regime siriano: «Immaginate i peggiori campi di concentramento, gulag, prigioni dove le persone non vedono nemmeno la luce del sole. Dove c’era una bambina di 4 anni che è stata liberata a 14 anni. Vederli uscire e sapere che ci è voluto così tanto tempo per salvarli perché il mondo stava a guardare, mi ha reso triste. Ma poi ho ricordato che poiché sono stati i siriani a liberarsi, ora possiamo decidere il nostro futuro senza alcun intervento esterno: non dagli Stati del Golfo, non dall’Iran o dalla Russia, non dall’Europa o dagli Stati Uniti o da chiunque altro. Ora i siriani possono avere l’autodeterminazione per cui hanno versato sangue e combattuto».

Chissà se in quel “chiunque altro” c’è anche la Turchia. Io spero di sì.

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