Danilo Dolci, rivolta sociale e nonviolenza

Nell’intervista a Giuseppe Milan, alcuni tratti della vita e dell’insegnamento di una figura scomoda nella storia del secolo scorso in Italia. Le tracce di un originale percorso di giustizia sociale maturato in una delle periferie dimenticate del nostro Paese
Danilo Dolci. Marcia della protesta e della speranza per la pace in Sicilia. Foto Wikipedia the Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication.

Pedagogista riconosciuto a livello internazionale, esponente emblematico del movimento per la reale attuazione della Costituzione nel dopoguerra italiano, la figura di Danilo Dolci (1924-1996) è ancora un segno di contraddizione se i 100 anni dalla sua nascita sono passati senza grandi cerimonie.

E, in fondo, è una conferma dell’incisività del suo impegno morale e sociale dentro le ferite tuttora aperte del nostro Paese. Gli ha reso onore l’urbanista Elena Granata che lo ha citato come esempio da seguire durante le settimane sociali dei cattolici in Italia che si sono svolte nel luglio 2024 a Trieste, non lontano dalla cittadina di Sesana, località oggi in terra slovena, dove questo inquieto testimone del nostro tempo trovò i natali.

Affascinato inizialmente dall’esperienza della comunità di Nomadelfia, fondata da don Zeno Saltini, Dolci fece di uno sconosciuto e povero borgo siciliano, tra Palermo e Trapani, un centro propulsore di rivolta sociale nonviolenta noto in mezzo mondo. Per una conoscenza di base della sua vita si consiglia il profilo scritto da Marica Tolomelli pubblicato sul sito della Treccani.

Abbiamo chiesto in questa intervista a Giuseppe Milan, noto docente universitario di pedagogia che ha scritto su cittanuova.it una nota personale su Danilo Dolci, di porre in evidenza ulteriori elementi di questa figura originale nel panorama cultuale e politico italiano.

Danilo Dolci è ancora “scomodo” a cento anni dalla sua nascita. Per quale motivo?
Danilo Dolci è stato un autentico “ribelle”, un vero “sovversivo”, un evidente segno di contraddizione: lo è stato, però, rispetto a un sistema socio-culturale-politico ingiusto, agente di conflittualità distruttiva sia nei rapporti umani, a livello micro e macro, sia nei rapporti con la Terra, che definiva Creatura di creature e che sognava come una grande Polis animata dalla creatività di ciascuno, dalla non-violenza, dall’autentica ricerca della pace. Il tutto, a partire da un processo relazionale “orizzontale”, dall’approccio “maieutico reciproco” e dalla prassi democratica da proporre a livello di comunicazione planetaria.

Da cosa è nato il suo impegno per la pace e la giustizia? Da quale itinerario personale proveniva?
Fin dagli anni giovanili Danilo Dolci si è mosso con un profondo sguardo “poetico”, tanto che possiamo affermare che egli sia stato inizialmente un “poeta”: un poeta comunque capace di imprimere questo sguardo immaginativo-creativo nel contesto delle cose reali, dei rapporti umani e sociali. Perciò – tenendo conto dei suoi successivi studi – possiamo anche definirlo poeta-architetto e poeta-sociologo, capace di architettare con il pensiero, con le parole e con le opere una diversa struttura sociale. E, in ultima analisi, poeta-educatore, capace di integrare le sue molteplici competenze in una sintesi credibile ed efficace.

Naturalmente questa sua visione ideale-valoriale, queste sue profonde aspirazioni, lo portarono fin da giovane a scelte-decisioni molto concrete e basilari anche per la sua esperienza successiva: ad esempio, fu netto il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale italiana (RSI) nel 1943, che lo spinse a fuggire in Abruzzo e a maturale un’intima avversione per la violenza, per la guerra, per ogni forma di militarismo.

Come è stato il suo rapporto con don Zeno Saltini e quali i motivi del suo percorso alternativo?
Un’esperienza sicuramente formativa per il giovane Dolci fu l’incontro con don Zeno Saltini e con la comunità di Nomadelfia, da lui fondata: nel 1950, a 26 anni, decise di abbandonare gli studi quasi conclusi di architettura, un lavoro già avviato come insegnante e la fidanzata, per stabilirsi proprio a Nomadelfia (presso l’ex campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena), esperienza di vita evangelica “dove la fraternità è legge”, che egli visse con grande intensità fino al 1952, quando decise di lasciarla: avvertiva infatti che quella comunità, che era  «come un’isola, un nido caldo», non gli bastava più e che la sua aspirazione più intima era quella di allargare gli orizzonti e di impegnarsi con “il resto del mondo”. Si trasferì perciò in Sicilia, a Trappeto, che gli sembrò la destinazione ideale e che descrisse come il paese più misero che avesse mai visto.

Il rapporto di amicizia e collaborazione con don Zeno era stato sicuramente fondamentale, tuttavia Danilo Dolci sentì la necessità di distanziarsi da forme di impegno esplicitamente confessionale per aprirsi a una prassi culturale-politica e di lotta sociale più laica e metaconfessionale.

Come è stato il suo rapporto con la Chiesa del tempo e con i partiti politici?
La sua sua scelta e soprattutto il suo impegno concreto e contestativo furono in vari modi avversati sia dalla politica dominante sia da varie istituzioni ecclesiali, che, in entrambi i casi, si sentivano scavalcati e miravano a detenere pressocché esclusivamente forme di potere poco attente al bene comune e del popolo.

Quali sono le iniziative in essere oggi in Italia che risentono del suo esempio e insegnamento?
Nei lunghi e intensi anni vissuti a Trappeto, egli si impegnò nella realizzazione di progetti comunitari ed educativi, come il Borgo di Dio e il Centro Educativo di Mirto, con l’intenzione che fossero esemplari ed esportabili, fondati naturalmente sul suo metodo dialogico-maieutico-autogenerativo, perciò sulla relazionalità dialogica, a cerchio, sul gioco creativo domanda-risposta in cui sia la domanda che la risposta non sono scontate, predeterminate, adagiate sul già noto, ma realmente capaci di inoltrarsi su terreni ancora sconosciuti, in una vera traiettoria di ricerca: metodo evidentemente agli antipodi del modello meccanicistico-produttivistico e di un’enfatizzazione dei contenuti di un apprendimento svincolato dall’impegno sociale.

Questa prassi pedagogica, molto simile alla “coscientizzazione” di Paulo Freire (con cui fu in rapporto di reciproca stima e affinità ideale), è tuttora importante, seguita in vari progetti di pedagogia emancipatrice: probabilmente è una prassi oggi minoritaria, ma imprescindibile proprio per la sua valenza sempre innovativa.

Come si spiega l’oscuramento dell’interesse sulla sua persona dopo una fase in cui Dolci è stato apprezzato e riconosciuto come un punto di riferimento da molti intellettuali? Quanto hanno pesato le sue tesi sulle questioni mafiose?
In realtà, alla sua morte ci fu un momento di riconoscente ricordo delle molteplici iniziative di Danilo Dolci, ma è altrettanto vero che negli anni successivi subentrò una specie di dimenticanza, se non di colpevole oscuramento, favoriti anche da una pigrizia istituzionale attenta a ben altri interessi e, cosa gravissima, a mantenere solidi legami – benché spesso negati o insabbiati – con le culture mafiose.

Sono perciò importanti e davvero apprezzabili gli eventi che, a partire dal centenario della nascita di Dolci, vengono e saranno organizzati – spesso a partire dal basso – come autentici atti riparatori, capaci di ridare dignità e diffuso riconoscimento a una personalità del Novecento così importante.

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