Un sogno di speranza: la missione di Padre Aldo Trento in Paraguay

Dalla povertà alla rinascita, la parrocchia di San Rafael incarna l’eredità delle reducciones gesuitiche, unendo fede, arte e solidarietà in una comunità viva e creativa. Il contributo di Padre Aldo Trento, deceduto il 20 dicembre 2024.
I paraguaiani accolgono il mese di ottobre con lo stufato “jopara” per allontanare la scarsità dalle loro case. (Foto Ansa, EPA/Juan Pablo Pino)

Anche se ad orecchi italiani il suo spagnolo riecheggia una cadenza veneta (proviene infatti dal bellunese), padre Aldo Trento si considera ormai paraguaiano – anzi “paraguagio”, come dicono lì – a tutti gli effetti. San Rafael è la sua parrocchia, famosa ad Asunción e oltre per le sue opere caritative e sociali e per il suo ispirarsi alle reducciones create nel 1600 dai gesuiti e riportate alla ribalta dal film Mission. Qui malati terminali trovano una clinica nella quale essere accolti, curati, amati. Qui sono sorti una scuola, un centro di aiuto alla vita dal quale dipende la sopravvivenza di settanta famiglie povere, una fattoria gestita da ragazzi disadattati, una casa editrice, un caffè letterario, e altro ancora… Una cosa è certa: nessuna di queste iniziative rientra in un progetto nato a tavolino, ma sono ciascuna la risposta ad una richiesta d’amore. Nulla di paragonabile con la situazione che padre Trento ha trovato al suo arrivo.

Una storia, questa, che Roberto Fontolan ha efficacemente descritto nelle sue “Cronache dal nuovo mondo. Paraguay, la missione di padre Aldo Trento” (Editrice San Paolo). Con le nuove costruzioni che le sorgono accanto, alcune piuttosto originali (una sorta di castello, una baita…), la chiesa di San Rafael caratterizza un quartiere di Asunción che si può definire residenziale a motivo delle sue strade empedrade (lastricate). Ma la parrocchia, che conta diecimila abitanti, comprende anche zone molto povere. Chi capita lì soprattutto la domenica ha l’impressione di un alveare in piena attività: bambini si radunano per il catechismo (sono duecento, e una trentina i catechisti); un coro è intento alle prove; adulti preparano le celebrazioni liturgiche, altri fanno l’inventario di cibo e abiti; anziani vendono souvenir e oggetti religiosi… Nella spontaneità, senza programmazione apparente, tutto si concatena con ordine. E con l’ordine, l’armonia.

Padre Aldo insiste nel dire che la parrocchia deve essere un luogo di bellezza. Non per niente uno dei cartelli sparsi nel suo territorio reca il motto: La bellezza manifesta l’esperienza cristiana. È un richiamo per la gente del luogo, che le vicende sociali e politiche hanno abituato alla trascuratezza. Riecheggia l’esperienza-pilota delle reducciones, dove l’arte e la musica si rivelarono una potente leva per l’evangelizzazione di un popolo sensibile al bello, come testimoniano oggi i resti di chiese barocche che non avevano nulla da invidiare alle più sontuose del Vecchio Mondo. E poi la provvidenza. È quest’altra logica alla base di San Rafael. Non passa quasi giorno senza che arrivi sotto le forme più varie: offerte di poverissimi, donazioni di persone facoltose, e perfino denaro da parte di condannati dal locale tribunale per reati pecuniari, in alternativa al carcere. Diversamente, il bilancio parrocchiale di circa diecimila dollari al mese sarebbe insostenibile.

«Se il punto determinante in una impresa sono i soldi – dichiara padre Aldo -, io sento che qualcosa non va. Certo, è richiesta fede». E di fede ha dovuto armarsi un tipo irrequieto e dal passato tumultuoso come lui. Nato sulle montagne del bellunese, a undici anni parte per il seminario dei canossiani contro la volontà dei suoi. Successivamente travolto dai venti della contestazione, diviene un problema per i superiori, ma con sua meraviglia viene ugualmente ordinato sacerdote. Il suo vescovo lo spedisce a Salerno, in missione tra i figli dei carcerati; lo troviamo poi a Battipaglia, a insegnare religione in un liceo. E proprio qui, a contatto con alcuni giovani di Comunione e liberazione, si rende conto che la sua dedizione a Cristo è diventata attivismo politico. Sperimenta così il fallimento, la solitudine. Tornato alle sue montagne, non si allontanerà più da don Giussani. Ma la crisi è ancora di là dal risolversi. Poi quell’intuizione del fondatore di Cl: «Parti per il Paraguay, rifai le esperienze dei gesuiti delle reducciones. Forse è la strada giusta».

In fondo la missione è il sogno di padre Aldo fin dai tempi del seminario. Superate le difficoltà con la congregazione di appartenenza, entra a far parte della fraternità San Carlo Borromeo. Finché nel settembre dell’89 – l’anno stesso in cui lascia il potere l’ultimo dittatore paraguayano, Alfredo Stroessner –, parte per il Sud America assieme ad un altro sacerdote, padre Alberto. Grande un terzo più dell’Italia, ma con meno di sei milioni di abitanti, il Paraguay ha sofferto più delle nazioni limitrofe per i rovesci della sua storia antica e recente. Fino alla lunghissima dittatura di Stroessner (dal 1954 al 1989). Dall’avvento della democrazia la ripresa è ancora lenta: due tentativi di golpe, l’industria del sequestro a scopo politico-estorsivo, occupazione di terreni da parte dei campesinos sin tierra, narcotraffico, contrabbando, analfabetismo

«Ci son voluti nove anni prima che sentissi questo Paese come il mio», confessa padre Aldo. «Gli inizi infatti sono scioccanti a causa del clima, della lingua e delle abitudini troppo diverse. Pensavo solo ai miei problemi, mi arrabbiavo di continuo, soprattutto con me stesso, perché non mi sentivo assolutamente all’altezza del compito affidatomi». Intanto percorre il Paraguay in lungo e in largo. Tra disagi inenarrabili, tormentato dal caldo e dalla depressione; lottando contro la tentazione di rifare le valigie. Dove ha trovato la forza per restare? «Nella certezza che Dio mi era sempre compagno, anche nei momenti più duri, quando cercavo di scappare da lui. Se non fosse stato per il sostegno di padre Alberto e la fiducia illimitata di don Giussani, me ne sarei andato il giorno dopo il mio arrivo. Durante quei viaggi, io che ero stato sempre appassionato di storia andavo a visitare le rovine delle reducciones, leggevo libri sull’argomento, recuperavo oggetti dell’epoca. Anche queste cose mi hanno aiutato».

Sa tutto, padre Aldo, su questi luoghi di vita comunitaria creati per l’evangelizzazione, la libertà e la difesa dei guaranì, altrimenti destinati alla schiavitù o alla morte. E ne parla come se da allora non fossero passati 400 anni, come se i suoi eroi gesuiti (quel Ruiz de Montoya, ad esempio, che amò gli indios come una madre, o quel genio creativo del trentino Antonio Sepp) fossero personaggi oggi di casa a San Rafael, sempre pronti a ispirarlo nella sua missione.

Con la piccola casa editrice parrocchiale ha pubblicato diverse opere sui centocinquanta anni di tierra sin mal (la terra del cristianesimo felice, come Ludovico Antonio Muratori definì la straordinaria esperienza delle riduzioni). Mentre in Italia, per i tipi di Marietti, sono apparsi Il cristianesimo felice e Il paradiso in Paraguay: vi si legge di villaggi autosufficienti retti dagli stessi indios in forme assembleari (i gesuiti assolvevano soprattutto il compito di consiglieri e si occupavano di catechesi e di istruzione). Alcuni erano così fiorenti da totalizzare fino a 80 mila capi di bestiame. Sembra che nel momento di loro massima espansione vivessero in essi 300 mila guaranì. E tutto ciò venne spazzato via da una volontà invidiosa e inumana, con soddisfazione delle potenze europee, senza che la Chiesa sapesse o potesse intervenire.

«I cristiani del Paraguay – commenta padre Aldo – sanno poco o nulla di questa tradizione gloriosa, per cui la nostra catechesi ai più giovani comprende anche quelle storie». Per lui quel seme non è morto ma è tornato a vivere nella parrocchia, che è una piccola riduzione, per come è concepita. Ne è una dimostrazione, fra l’altro, la Granja padre Pio, a un paio di chilometri da essa: ultima tra le opere di San Rafael, questa azienda agricola nata per educare al lavoro ragazzi difficili è riuscita, a prezzo di sforzi immani, a trasformare sette ettari di foresta semipaludosa in orto, frutteto e pascolo per futuri allevamenti di bestiame (intanto c’è quello dei polli). Vi è sorta una abitazione per i ragazzi trasformati in contadini, allevatori e sostenitori della parrocchia con i loro prodotti. E non è finita: sono previsti una casa di esercizi e ritiri, un campo di calcio, ed altro ancora.

Ma ciò a cui padre Aldo tiene di più è la clinica divina providencia: «un luogo di resurrezione, dove il malato terminale scopre che l’amore esiste» afferma lui, che quando ne parla ha sempre gli occhi lucidi. Primario di questa struttura all’avanguardia in tutto il Paese nel campo delle cure palliative, e destinata ad ingrandirsi con un reparto per bambini, è il dottor Umberto Mazzotti, un oncologo uruguayano appartenente ai Focolari. «I nostri pazienti sono tutti poveri – spiega – e, specialmente quelli con Aids, abbandonati. Il nostro obiettivo è aiutarli a vivere i loro ultimi mesi, settimane o giorni nella pace con sé stessi, con la famiglia e con Dio. A tale scopo, alla terapia del dolore si accompagnano la cura psicologica e quella spirituale. Anche per il personale si svolgono catechesi settimanali. In due anni e mezzo abbiamo assistito più di 300 persone. Tra le tante esperienze, quella di Dora, una malata di cancro che aveva avuto undici figli, tutti da uomini diversi. Quando arrivò da noi era così scontrosa da rifiutare ogni rapporto. Curata e amata, la vedemmo pian piano trasformarsi. Dopo aver cominciato a dipingersi le unghie, segno di aumentata autostima, sentì il bisogno di riconciliarsi con i primi sei figli, che aveva abbandonato, e con la madre. Visse ancora un mese, ma conobbe l’amore vero e ritrovò un rapporto con Dio».

«In questi anni – riprende padre Aldo – non ho visto la società migliorare, anzi generalmente i paraguagi si sono allontanati dalle proprie radici religiose. C’è più violenza, più criminalità, il criterio di tutto è diventato il denaro. E tuttavia San Rafael è un punto di risposta ai bisogni di un popolo che – abituato, dopo tante dittature, a veder altri prendere decisioni al suo posto – qui ha cominciato ad assumersi delle responsabilità, senza aspettarsi tutto da noi preti. Lo dimostrano i tanti laici che conquistano la verità del loro ruolo e, con esso, disponibilità e creatività per animare e portare avanti le opere e attività parrocchiali. Unica condizione richiesta: la gratuità e la passione per l’uomo. Questa esperienza, nella quale si lasciano coinvolgere anche non cristiani, è il miracolo più grande a cui ho assistito da quando sono qua. Questa speranza in un Paraguay diverso io l’ho vista germogliare e crescere. La cappella, a San Rafael, è aperta giorno e notte».

Come mai? Occorre risalire al 1999: padre Alberto, il parroco, si ammala, e di punto in bianco padre Aldo si trova da solo alla guida di una parrocchia che si sta trasformando in un vulcano di vitalità. «Nel primo smarrimento mi dissi: Signore, o mi aiuti tu oppure scoppio… Io non so fare niente. Perciò decisi: parroco sarebbe stato lui stesso, Cristo, mentre io avrei fatto il cappellano. Esposi il Santissimo nella cappella e proposi a tutta la comunità di avere lui come guida reale… Non avevo altro metodo da proporre alla gente se non quello che io vivevo, momento per momento: l’ho chiamata la pastorale dell’istante…».

Oggi collaborano con padre Aldo altri due preti della fraternità: don Paolino di Imola e don Ettore di Garbagnate Milanese. «Senza l’amicizia e l’unità tra noi non accadrebbe nulla. In fondo – ribadisce – io considero la missione il dilatarsi di un rapporto di amicizia». E col pensiero va a quei gesuiti che quattro secoli fa hanno superato ostacoli enormi nel fondare e condurre le reducciones proprio grazie alla loro fraternità in Cristo. Malgrado l’apparenza di manager (padre Aldo no para, non si ferma, dicono lì), lui riserva per sé il ruolo di chi rimanda sempre all’ideale.

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