Franco Casaroli alpino-focolarino

Nativo di Castel San Giovanni (PC), si trova oggi nella cittadella internazionale dei Focolari a Loppiano sui colli del Vald’Arno fiorentino. Volentieri e con grande spirito "alpinistico" ha risposto alle nostre domande

Franco, hai una bella età, ma hai conservato uno spirito giovane, degno di un alpino. Parlaci delle tue origini.
Sono nato a Castel San Giovanni (Pc), primo di tre figli, il 21 gennaio del 1937. Mio papà Artemio, orginario di Castello, faceva il carrettiere col cavallo (lo chiamavano Saraca, io ero il figlio di Saraca) e la mamma, Assunta Raffaldi, era originaria di Sarmato; la chiamarono Assunta perché nacque il 15 d’agosto. Poi avevo due sorelle Anna e Maria Teresa. Durante la guerra andammo ad abitare al Cardazzo e i genitori vi aprirono una trattoria-negozio. Per andare a scuola a Castel San Giovanni facevo  5 chilometri a piedi (quando i bombardamenti lo permettevano) e ricordo che ogni giorno bisognava portare 4 cose: un pezzo di legno per la stufa, l’abecedario, un pezzo di polenta e un cucchiaio per la minestra calda che davano. Conservo ancora la pagella di promozione dalla prima alla seconda elementare nel 1943, c’era scritto “Per volere del Duce e volontà di Dio l’alunno Gianfranco Casaroli è stato promosso alla 2° elementare”.

Da come sei ancora oggi devi essere stato un ragazzo vivace!
Hai ragione, molto vivace e amavo tanto lo sport. E qualche scappatella, ero timido ma me la cavavo. Da bambino con mons. Conti, andavo in colonia ad Arcello. Dopo Arcello, con le Acli facevo le uscite d’agosto e lì mi sono innamorato della montagna. È una grande cosa la montagna, bisogna avvicinarla con umiltà e rispetto. Montavamo delle tende dell’esercito e poi via, sulle vette più ardite. Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa. Non arrivavamo sempre fino alla vetta, ma nei pressi, fin dove era possibile per dei ragazzi, io ero molto giovane avevo 10 anni. Ho stampato nel cuore la gioia di arrivare ai rifugi più alti fino a 4000 metri. Lassù c’era solo acqua, quando si voleva qualcosa, c’era acqua calda. Partivamo dal paese con un camion a rimorchio, si partiva alle 21 e alle 7 del mattino eravamo alla base del monte. Una signora anziana ci faceva da mangiare. Avevamo la Messa al campo. Ma qui c’è un’altra storia.

Cioè?
Due cose. Uno dei primi ricordi della chiesa, della religione è che ero in braccio al nonno, era giovedì di mercato e lui mi portò, avevo 4 anni, in cattedrale lì a Castel San Giovanni e mi spiegava le cose; c’erano Adamo ed Eva, e poi la cappella con un crocifisso nero e pieno di sangue, ed io gli ho chiesto: “Chi è quello?” e lui “Quello è il Cristo, l’hanno ucciso i preti”. Mi colpì, mi fece iniziare a camminare col piede sinistro.
Un’altra volta in chiesa un prete tuonò sull’inferno, presi un tale spavento, mi nacquero così tanti scrupoli che pian piano abbandonai la Chiesa. Molto più tardi recuperai la fede. E ricordo che giocavamo a calcio, io – per farmi intendere – giocavo nella Dinamo Mosca, e la squadra della parrocchia la chiamavamo “Le figlie di Maria”. Avevo invece tutto un giro di amici e amiche con cui mi trovavo bene ed ero un po’ il leader. Un altro ricordo: quando avevo 6/7 anni e andavamo a fare il bagno nel fiume, ma anche a giocare sulla riva. Una volta abbiamo trovato una bomba a mano tedesca, e abbiamo pensato bene di farla esplodere e la buttammo in mezzo al fuoco, ma non scoppiava. Mi chiesero di andare al fiume a prendere dell’acqua e io brontolando (perché  lo chiedevano sempre a me) andai. Quando ero al fiume, scoppiò la bomba, due morti e vari feriti. Ero stato graziato. Ma voglio dire ancora della montagna.

Si vede che la ami tanto, cos’hai scoperto sulle montagne?
Sai, un alpino nasce da lontano. Per me la montagna non era solo poesia, ma tanto di più: conquista, sforzo, sacrificio, silenzio, umiltà… la montagna diventa amica degli umili. E poi, quando si arriva in vetta, chiedere perdono perché l’abbiamo violata, perché la cima è in contatto con Dio e basta. Mi piaceva l’orizzonte senza confini. Tanto per dire più tardi, senza farne parola in casa, feci il brevetto di paracadutista e ricordo bene il primo lancio “O ti butti – mi dicevo – o non ti butterai più”, questo mi è poi servito anche per la vita.

Sei sempre stato a Castel San Giovanni?
Nel 1956 – avevo 19 anni – la mia famiglia si trasferì in città, per aprire un bar ristorante nei pressi della stazione – dove c’è il piazzale Lupa – era un’ottima posizione. Ma per me è  cominciato un periodo di crisi perché mi vennero a mancare tutti gli amici e amiche, i precedenti punti di riferimento, mi sentivo isolato e ne soffrii terribilmente perché con loro si andava a ballare al Faro Blu, al cinema, a divertirsi, la vita dei giovani in compagnia. In città mi mancava tutto questo.

E cosa hai inventato?
L’oasi divenne  lo sport, la corsa, mi allenavo con l’olimpionico Pino Dordoni, eravamo della stessa Società Diana, il famoso calzaturificio. Mi allenavo sui 42 chilometri per poter partecipare alla maratona olimpica di Roma, era il mio faro, sono stato campione provinciale dei 10 Km.

Non ti è mancato nulla. Ma a un certo punto ti sarà arrivata la cartolina…

Nel 1958 arrivò la cartolina per il militare. Quando alla visita di leva, al distretto, vennero a sapere che avevo il brevetto di paracadutista, mi dissero subito di entrare nei paracadutisti di montagna, ma quando lo comunicai a mia madre, spaventata, mi disse che se fossi andato coi paracadutisti, sarebbe morta di crepacuore. Allora tornai al distretto a dire che non potevo accettare perché mia madre non voleva. La  risposta stupì molto il maresciallo che mi disse; “Alla tua età decide ancora la mamma?”, ma non volli sentire ragioni e venni arruolato negli alpini della Julia e feci l’Accademia a Foligno.

Ti sei trovato bene?
I primi tempi in caserma furono bigi, mi portavo dietro questa tristezza dell’isolamento, non sentivo la carica per socializzare. E la scuola chiedeva assai. Ricordo il giorno della Penna, quando ci hanno messo la penna d’aquila sul cappello, era una cosa solenne (era d’aquila quando c’era, sennò era d’oca), ma voleva dire che entravi a pieno titolo tra gli alpini. Uscii col grado di sergente.

Dopo la scuola di Foligno dove fosti mandato?
Di Foligno ti dico dopo, perché è successa per me una cosa molto importante. Poi fui mandato nella Julia a Pontebba, vicino ai confini con la Jugoslavia e con l’Austria. Sulla facciata della caserma c’era scritto “Gnanca se moro”, cioè io non indietreggio neanche se muoio. Sempre avanti! E su un’altra caserma c’era scritto “Mus in pace e leoni in guera”, quando c’è pace l’alpino è un mulo tranquillo, quando c’è la guerra è un leone, mangiamo tutti. “Davanti  ai muli, dietro i cannoni, alla larga dei superiori”, era il nostro motto. Se l’erano un po’ legata al dito la cosa del brevetto di paracadutista mancato. E mi mandarono a Pontebba, che era una specie di compagnia di correzione, mandavano i meno raccomandabili, marce da sfinire, freddo da gelare, metri di neve, muli. Eravamo 120 uomini e 80 muli. La grande impresa fu quando smontammo un cannone nuovo di zecca appena adottato dalla Nato di 16 quintali, lo smontammo in 14 pezzi da 120 chili, per 14 muli. Io ero capopezzo e orgogliosamente lo portammo e rimontammo sulla vetta del monte Peralba (2500 m) dove nasce il Piave che mormorò “non passa lo straniero”, ci sono le foto.

Cosa volevi dirmi di Foligno?
E’ stato l’evento della mia vita. Portare un cannone in vetta è qualcosa che fai una volta, un’impresa che comincia e poi finisce. Quello che mi è successo a Foligno è qualcosa che è iniziata soltanto e non è più finita.

Hai trovato la fidanzata?

Qualcosa di più. Un compagno di caserma, ricordo molto bene il suo nome, Giuseppe Buontempi di Milano… a proposito, questo ragazzo (erano 12 fratelli) morì qualche mese dopo per il ribaltamento di un camion che tornava dalla polveriera di Spello. Fu uno shock per tutti noi. Questo ragazzo, Giuseppe,  si accorse che ero giù di tono e aveva notato che tendevo a isolarmi, e mi diede l’indirizzo di un appartamento in Foligno città dicendo: “Vai a trovare queste persone. Hanno qualcosa di nuovo che fa per te”. La cosa mi incuriosì.

A questo punto incuriosisce anche noi
Arriva la domenica 4 dicembre 1958, festa di santa Barbara, patrona del fuoco. Nel pomeriggio c’era libera uscita per la giornata di festa e decisi di andare a quell’indirizzo, da quelle persone. Dovetti superare una tentazione: per strada vidi un ristorante (dove ogni tanto andavamo) che aveva in vetrina un piatto di fettuccine… fui attiratissimo… ma decisi di proseguire e di andare a quell’indirizzo. Prima di suonare il campanello ebbi un presentimento, come se mi aspettasse qualcosa di grande. Alla porta venne una ragazza che mi fece accomodare chiedendomi di attendere 10 minuti, il tempo di terminare il pranzo. Io mi guardavo attorno, l’arredamento mi piaceva, ma  che persone erano? Dov’ero capitato? Poco dopo arrivano 3 ragazze (ricordo i loro nomi Maria, Violetta, Rita), si mettono a cantare con la chitarra una canzone dedicata alla Madonna. Io ero sempre più stupito. Nel loro accogliere, parlare, cantare c’era qualcosa che mi attraeva, non sapevo dargli un nome, ma c’era qualcosa in quella loro convivenza che mi colpiva. E al termine chiesi se potevo tornare a trovarle. Era il giorno di santa Barbara, il giorno del fuoco… del focolare. Era una comunità del Focolare.

Ma tu eri un po’ dall’atra parte, voglio dire non eri il tipo da sacrestie.
Questo mi stupisce ancora oggi. Tornai. La seconda volta mi parlarono del Comandamento Nuovo di Gesù, dell’amore reciproco, e io sentivo che la loro vita e quello che dicevano era più rivoluzionario del partito comunista in cui militavo, mi trovai a pensare che con  la carica che avevano quelle ragazze sarebbero arrivate lontano, in tutto il mondo. Chiesi cosa dovevo fare e mi dissero: “Semplice! Basta amare”. Ricordo che in caserma, per la prima volta, mi passò l’idea di rifare la branda all’amico vicino a me. Mi guardarono come se fossi diventato pazzo.

Ci fu una terza volta?
Eccome! La terza volta mi parlarono di una cosa a cui minimamente avevo pensato e caddi dalle nuvole: mi consigliarono di andare a confessarmi. Era dalla cresima che non lo facevo. Mi indicarono un Benedettino, che mi parlò di Dio Amore, non un Dio giudice, ma un Dio che pensava solo di amarci. Com’era diverso e distante da quel giorno dell’inferno!! Mi disse che il passato non c’era più, c’era solo un presente in cui amare. Questa era la nuova prospettiva che mi si apriva davanti. Dovevo buttarmi, come quando feci il primo volo da paracadutista. Dovevo rischiare tutto. “ E’ una rivoluzione”, mi disse Giuseppe invitandomi, e aveva ragione. Peccato sia morto in quell’esplosione.

Quindi questo incontro così speciale per te accadde prima di andare a Pontebba nella Julia.
Certo, e a Pontebba la prima domenica, alla messa in caserma, ricordo che quando arrivò il momento della comunione (eravamo in 400, anche con la caserma fanteria alpina), non ebbi il coraggio di uscire pressoché da solo dalle fìla del battaglione. Ebbi poi a soffrirne molto perché tornato in caserma lessi nel Vangelo: “Chi non mi avrà riconosciuto davanti agli uomini, io non lo riconoscerò davanti al Padre mio”, ebbi un grande rimorso. La seconda domenica, al momento della comunione qualcuno si mosse, ed anch’io ebbi il coraggio di andare davanti a tutti a fare la comunione. Era un atto forte in caserma, ma stavolta ce l’avevo fatta. La svolta era avvenuta. E qui è cominciata una storia che continua.
Tornato a Piacenza divenni membro attivo della parrocchia di S. Anna, il parroco don Pietro Prati vedendomi ogni mattina alla messa, m’invitò alle riunioni dell’Azione Cattolica di cui divenni vicepresidente e fui tra i primi che con don Bozzuffi seguivano Comunione e Liberazione, ricordo alcuni incontri con don Giussani. Don Pietro s’interessò e mi aprì la strada per un lavoro alla Motorizzazione, facevo revisioni ed esami di guida; intanto davamo vita alla comunità dei Focolari di Piacenza.

Scusa Franco, ma tu hai un cognome “di peso”…
Casaroli, come il cardinale Agostino, anche lui nato a Castel San Giovanni. Eravamo cugini. Non ci siamo frequentati perché lui è stato ordinato sacerdote nel 1937, quando io sono nato, e poi era sempre via, a Roma e in giro per il mondo e poi  a Castel San Giovanni aveva sempre meno parenti vivi, per cui veniva poche volte. Più tardi ho saputo di una cosa che lui disse a una mia cugina di me: “Se s’è convertito Franco, si converte anche il diavolo”, aveva ragione.

Da quello che so, sei poi entrato anche nella comunità del Focolare.

Nell’agosto del ’64 entrai nel focolare di Parma. Nel luglio di quell’anno era morto Eletto Folonari (i Folonari dei vini, di Brescia) che lasciava in eredità il terreno di Loppiano (dove mi trovo oggi). L’8 gennaio 1965 approdai proprio nella nascente cittadella di Loppiano, facevo parte dei primi 45 giovani che approdavano per la scuola internazionale. A fine anno mi chiesero di lasciare Loppiano e andare a Firenze ad occuparmi della nascente Editrice Città Nuova. Viaggiavo per la Toscana, La Spezia, Marche, Umbria… fino al ’78, quando mi trasferii a Roma e poi la sorpresa: mi fu proposta Manila nelle Filippine. Certo, imparare l’inglese a 54 anni non fu cosa da poco, ma col tempo andò sempre meglio. Partii da Roma nel novembre dell’85.

Avevi ragione dire che a Foligno era cominciata una storia che non sarebbe finita.
Così è. Ero a Manila da due mesi quando nel febbraio del 1986 ci fu la famosa rivoluzione non violenta che fece crollare la dittatura di Marcos (durata 27 anni), una cosa incredibile, due fronti opposti si contendevano il potere e in mezzo si intromise una folla di 2 milioni di persone, c’ero anch’io, con Roberto Mussi (di Costapelata) e tutto avvenne senza violenza, con statue della Madonna e rosari, questo per dire com’è il popolo filippino.

Quanto sei rimasto nelle Filippine?
Sono rimasto dall’85 al ’97 . Una semina abbondante e lo spirito dell’unità portato dal carisma di Chiara Lubich si diffondeva in tanti Paesi asiatici. Sono rimasto 12 anni, e poi sono rientrato in Italia, prima a Roma e adesso a Loppiano, dov’ero venuto che avevo 26 anni, e adesso sono 88.

Un bilancio della tua vita di alpino-focolarino?
L’alpino è pronto a tutto, a fatiche enormi su per le vette e dove c’è bisogno. Gli alpini, dove vanno, servono la comunità. Uno rimane sempre alpino. Sono convinto che nel servizio c’è anche il compendio del cristianesimo. Siamo figli di un Dio d’amore, e lo spavento che avevo preso da bambino, ha fatto da sfondo oscuro perché brillasse ancora di più. “Alpino e focolarino” mi suonano bene insieme. Come dice un poeta “Siamo fatti per le cime, non  per strade che hanno fine. Dare sempre, dare tutto, non è più fiore ma è buon frutto”.

Vai perfino in poesia.
Dio creò l’alpino, lo mise sulla punta di una montagna e gli disse “arrangiati” e lui gli rispose “ Questa è vita!”. Devo dirti la verità? Sono proprio soddisfatto della vita.

Si vede, si sente. Fai onore alla penna che porti sul cappello. Come fa la canzone? Cantala un po’!

Sul cappello, sul cappello che noi portiamo
C’è una lunga, c’è una lunga penna nera
Che a noi serve, che a noi serve da bandiera
Su pei monti, su pei monti a
… (si blocca)

Senti, io qui ci metterei un’altra parola perché sono alpino sì, ma anche focolarino, ci metterei…che a noi serve, che a noi serve da bandiera
su pei monti su per monti a pacificar
. Ohilalà!

Ohilala!

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