Addio a Kianoosh Sanjari: un iraniano che amava la vita

Il giornalista iraniano Kianoosh Sanjari si è suicidato la sera del 13 novembre scorso, a Teheran, per protestare contro l'incarcerazione di attivisti politici e contro il regime. Poco prima di gettarsi dalla terrazza di un centro commerciale, ha scritto: “La mia vita finirà dopo questo tweet, ma non dimentichiamo che moriamo per amore della vita, non della morte”.

La mattina di mercoledì 13 novembre, Kianoosh Sanjari è passato a casa dei genitori, a Teheran, dove ha anche salutato alcuni amici, ai quali ha raccontato la sua determinazione: quella mattina aveva inviato su X un ultimatum alla magistratura iraniana, chiedendo il rilascio di diversi prigionieri politici, tra cui Fatemeh Sepehri, Nasrin Shakarami, Toomaj Salehi e Arsham Rezaei. Aveva anche scritto che se entro le 19 dello stesso giorno le autorità giudiziarie non avessero annunciato pubblicamente il rilascio dei quattro prigionieri politici, lui si sarebbe tolto la vita per protestare contro la “dittatura” della Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei.

Com’è purtroppo facile intuire, non è arrivato alcun annuncio di liberazione. Così, sebbene gli amici l’avessero scongiurato di non suicidarsi, quella sera poco dopo le 19, Kianoosh ha scattato una foto dalla terrazza più alta del centro commerciale Charsou, che mostra un ponte e una strada, laggiù, sotto di lui. Ha postato la foto, poi ha scritto che si sarebbe tolto la vita, aggiungendo: “Nessuno dovrebbe essere imprigionato per aver espresso le proprie opinioni. La protesta è un diritto di ogni cittadino iraniano”. Poco dopo il suo corpo è stato trovato su un marciapiede accanto al centro commerciale. L’agenzia di stampa statale Irna ha sentito il dovere di precisare che il giudice Mohammad Shahriari, capo dell’ufficio del procuratore penale di Teheran, ha aperto un’indagine per “morte sospetta”.

Kianoosh Sanjari era nato a Teheran l’11 settembre 1982, aveva dunque 42 anni. Dall’età di 17 anni, nel 1999, e fino al 2007 era stato arrestato diverse volte dalle forze di sicurezza ed aveva trascorso due anni nel famigerato carcere di Evin. È la prigione dove è reclusa anche Narges Mohammadi, l’attivista iraniana per i diritti umani, Premio Nobel per la Pace 2023, che in agosto ha avuto un infarto. E da allora di lei non si hanno più notizie.

Nel 2007, Kianoosh, rilasciato dal carcere, fugge nel Kurdistan iracheno, poi, con l’aiuto di Amnesty International, in Norvegia, e giunge infine negli Usa. Fino al 2013 lavora a Washington per il servizio persiano di Voice of America come giornalista, poi come ricercatore per Boroumand Foundation e per Iran Human Rights. Nel 2016 decide di tornare in Iran per aiutare la madre ammalata.

Come era facile prevedere, pochi giorni dopo viene arrestato e trasferito di nuovo a Evin. Entra ed esce dal carcere più volte. Poi, con un processo di pochi minuti viene condannato a 11 anni di carcere di cui 5 effettivi. Nel 2021, appena uscito di prigione, fugge di nuovo, ma nel 2023 torna in Iran, ben sapendo di correre molti rischi. In un’intervista del 2022 a Deutsche Welle, racconterà qualcosa delle sue incarcerazioni a Evin: nel 2019, per esempio, dopo 3 anni di pena, Sanjari si ammalò, e racconta lui stesso: “Un giorno mi ammanettarono, mi misero in macchina e mi trasferirono, sotto scorta, all’ospedale psichiatrico di Aminabad, noto anche come Razi. Mi portarono direttamente in reparto e due soldati mi sorvegliavano. Di notte l’infermiera mi iniettò qualcosa che a tutti gli effetti mi bloccò la mascella. Persi i sensi dopo l’iniezione e, al mattino, quando mi svegliai, vidi che le mie mani e i miei piedi erano incatenati al letto”.

Dimesso e riportato a Evin, in seguito, per ordine del Comitato medico speciale, fu ricoverato in ospedale diverse altre volte. Ha raccontato lui stesso che, durante uno di questi ricoveri, fu sottoposto a scosse elettriche nove volte. Nell’intervista del 2022 ha raccontato anche il dramma dell’isolamento durante la detenzione: “Se i tuoi ideali non sono abbastanza forti, crollerai. Ho trascorso un totale di oltre un anno in isolamento… Ho sentito le grida e le urla di molti prigionieri e ho visto quelli che si sono suicidati in isolamento, che sono stati poi portati nella mia cella”.

E in un altro passaggio: “La cella di isolamento è una forma di tortura perché una persona viene messa nel vuoto, ignara di tutto ciò che accade al di fuori delle quattro mura. È una specie di vuoto di tempo, luogo, persone, famiglia e vita. A volte, non sai se è giorno o notte”. In un passaggio dell’intervista, così descrive l’effetto che ha avuto su di lui l’isolamento: “L’effetto positivo dell’isolamento su di me è stato che mi ha reso più paziente e resiliente. Ha ampliato la mia visione del mondo e mi ha rivelato la bruttezza della dittatura”… “Tuttavia, non posso negare che l’isolamento abbia turbato anche la mia anima e il mio spirito”.

Il metodo del “trattamento” psichiatrico per i dissidenti, che ha subito Sanjari, non è evidentemente un caso isolato, in Iran. In questi giorni si sta discutendo l’istituzione di “cliniche dell’hijab”, il velo che è costato la vita a Mahsa Amini e che è obbligatorio per le donne iraniane. In un disegno di legge “sulla sicurezza delle donne”, che è stato messo all’ordine del giorno dell’Assemblea consultiva islamica iraniana, si prevede l’istituzione di cliniche che offrano “trattamenti scientifici e psicologici per curare la rimozione dell’hijab”.

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