La caduta del muro di Berlino 35 anni fa

Sono passati 35 anni da quando si aprirono le frontiere che condussero all’unificazione della Germania che oggi vive una profonda crisi
Militari della Germania Est guardano attraverso una porzione divelta del muro, dall'altro lato molte persone che finalmente circolano liberamente, in una foto d'archivio del 10 novembre 1989. ANSA/I54

In Unione Sovietica, il notiziario del 10 novembre del 1989 riportò che a Berlino erano state semplificate le procedure per accedere alla zona ovest, con un notevole afflusso di visitatori dalla zona est fin dalla sera precedente. Nessuno comprendeva veramente la portata di quello che era successo il giorno prima, la sera del 9 novembre. Fu allora, infatti, che, durante una conferenza stampa, Riccardo Ehrman, corrispondente dell’ANSA, chiese a Günter Schabowski, portavoce della Repubblica Democratica Tedesca, se il governo non si fosse pentito di una serie di restrizioni ai viaggi verso alcuni Paesi del blocco sovietico che il suo governo aveva recentemente imposto.

Infatti, nei mesi precedenti, molti cittadini della Repubblica Democratica Tedesca, erano riusciti a lasciare la Germania Est, transitando per l’Ungheria e quindi per l’Austria, i cui confini erano stati simbolicamente tagliati, fino a giungere nella Germania Ovest. Molte erano state le proteste contro il governo della Repubblica Democratica Tedesca, il cui presidente del Consiglio di Stato, Erich Honecker, in carica dal 1971, fu costretto alle dimissioni il 18 ottobre. Nel tentativo di mantenere in vita il regime comunista, si decise di fare delle concessioni ai manifestanti, una serie di riforme e qualche apertura nei confronti dell’occidente, da annunciare proprio in quella conferenza stampa.

Schabowski disse che il governo non si era pentito e, leggendo confusamente tra le sue carte, annunciò che era stato stilato un nuovo regolamento che rendeva possibile per ogni cittadino della Repubblica Democratica Tedesca di varcare il confine. I giornalisti presenti erano increduli e iniziarono a fare molte domande al funzionario tedesco. Ritornò alla carica Ehrman, poi Peter Brinkmann, del quotidiano tedesco Bild, infine Krzysztof Janowski di Voice of America, che chiese a Schabowski se il nuovo regolamento si applicasse anche a Berlino. Schabowski, sempre più confuso, rispose di sì, mentre si smarriva tra le carte che aveva davanti. Poi fu la volta del giovane giornalista Ralph T. Niemeyer, che chiese a Schabowski quando sarebbero entrate in vigore quelle nuove misure. Schabowski, ancora più confuso, disse che per quanto ne sapeva le nuove regole avrebbero avuto validità immediata.

Cittadini di Berlino est e Berlino ovest iniziano a circolare liberamente da una parte all’altra del ‘Muro’, in un’immagine d’archivio del 9 novembre 1989. ARCHIVIO / ANSA / PAL

La notizia, rilanciata dai telegiornali della sera nella Germania Ovest, rimbalzò di bocca in bocca anche nella Germania Est e, in poche ore, una folla immensa si radunò davanti ai checkpoint del muro di Berlino, facendo pressione sulle guardie che erano poste al controllo dei varchi ma che non avevano ricevuto nessun ordine particolare. Intorno alle 23:30, due soldati alla barriera di Bornholmer, Helmut Stöss e Lutz Wasnick, agendo dietro ordine di Harald Jäger, un ufficiale della Stasi (il temuto Ministero per la sicurezza della Repubblica Democratica Tedesca), alzarono la sbarra ma non fecero attempo che centinaia di berlinesi dell’Est la spinsero e si precipitarono verso Berlino Ovest. Il Muro di Berlino, così, improvvisamente, cadeva.

Tutto ciò era stato possibile grazie ad una nuova fase apertasi nell’Unione Sovietica con la politica di perestrojka (ricostruzione) e di glasnost (trasparenza) di Mikhail Gorbachev, che aveva sì avviato delle riforme importanti nel blocco sovietico, ma la presenza sovietica a Berlino non era in discussione. Gorbachev pensava che questo nuovo corso non avrebbe intaccato i valori del socialismo e che, anzi, quei Paesi dell’Est sarebbero andati verso l’occidente con un socialismo riformato. Questo idealismo gorbacheviano si completava poi con la scelta di non usare la forza.

La riunificazione delle due Germanie non era scontata. Basti pensare che, nel dicembre del 1989, il 73% dei cittadini della Germania Est voleva mantenere l’autonomia del Paese, per il timore di essere fagocitati dalla Germania Ovest. Anche la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e la Francia di François Mitterrand vi si opponevano, temendo la potenza economica di una Germania unificata. Così anche l’Italia, tanto che Giulio Andreotti diceva di amare tanto la Germania da volere che ce ne fossero sempre due.

Ma le pressioni degli Stati Uniti e del cancelliere federale della Germania Ovest, Helmut Kohl, furono più forti, assieme alle rassicurazioni che la Germania sarebbe rimasta neutrale e che i Paesi dell’Est non sarebbero entrati nella NATO. Inoltre, il tessuto economico e industriale della Germania Est era compromesso e c’era una continua fuga di cittadini dall’Est all’Ovest. Così Kohl propose un’unione monetaria per poi arrivare rapidamente a quella politica.

Gorbachev diede il suo assenso all’unificazione di una Germania neutrale, alla quale i paesi occidentali si impegnarono. Il 1° luglio 1990 fu istituita un’unione economica e monetaria tra le due Germanie, mentre il 3 ottobre 1990 si giunse all’unificazione politica. Infatti, Gorbachev immaginava una nuova configurazione del sistema di sicurezza europeo, con un superamento delle vecchie alleanze politiche e militari. Le cose, però, andarono diversamente. Nel 1991 ci fu la dissoluzione dell’Unione Sovietica, poiché le riforme di Gorbachev, che voleva spostare il perno dello Stato sull’amministrazione fu inconciliabile con l’assetto istituzionale concepito da Lenin che si fondava sul partito.

Le cose, però, andarono diversamente anche per la Germania, dove il termine Nostalgie (nostalgia dell’Est) divenne la parola più pronunciata dai tedeschi dell’Est e ciò è ancora vero oggi. Infatti, con l’unificazione, la Germania visse il peggiore periodo di recessione economica dalla II Guerra Mondiale, a causa di un insieme di fattori: gli ingenti costi dell’unificazione, la sopravvalutazione del marco, l’aggressiva competizione delle economie asiatiche, un sistema economico rigido, l’esternalizzazione della produzione verso i paesi dell’Europa dell’est dove i salari erano più bassi, comportarono la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

La Germania rispose a questa crisi con una combinazione di flessibilità sui salari e sull’orario di lavoro a favore di una maggiore sicurezza del lavoro. All’inizio degli anni 2000 si aggiunsero le riforme del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, che riformò ulteriormente il mercato del lavoro, ridusse i benefici legati alla disoccupazione e liberalizzò il lavoro temporaneo, creando i famosi mini-job, spesso svolti da studenti, pensionati e quanti arrotondano uno stipendio regolare considerato non sufficiente. La locomotiva tedesca iniziò allora a correre, raggiungendo una prosperità invidiata da molti ma anche un incremento delle esportazioni ed un surplus commerciale che metteva in difficoltà le economie degli altri paesi europei. Le ulteriori riforme di Angela Merkel consolidarono il sistema economico tedesco: aumento dell’età pensionabile, pareggio di bilancio dello Stato federale e delle regioni, eliminazione di molti benefici sociali, hanno aumentato le disuguaglianze sociali ma anche l’occupazione, almeno fino ad un certo punto.

Il resto è storia recente. Il governo del socialdemocratico Olaf Scholz è in crisi. Ma è la Germania stessa ad essere in crisi come nazione, è in crisi il suo modello sociale ed economico, fondato sulle esportazioni, laddove una società sempre più frammentata e sempre più spaventata vede riapparire le ombre di un passato non troppo lontano, con il quale non sono ancora stati fatti i conti e di cui qualcuno ha una pericolosa Nostalgie.

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