Myanmar: chi sostiene il regime?

La comunità internazionale cerca da tempo di arginare il potere del regime militare del Myanmar, insediatosi con il colpo di stato del 1˚ Febbraio 2021, denunciando e tentando di bloccare le transazioni economiche internazionali. Il governo di Singapore ha riposto all’appello bloccando molte forniture. Allora, come riescono i militari golpisti a rifornirsi di carburante e pezzi di ricambio per gli aerei che bombardano il popolo birmano?
Soldati Thailandesi stanno di guardia. Gli abitanti dei villaggi del Myanmar fuggono in Thailandia nel conflitto tra ribelli e giunta militare. (Foto Ansa, EPA/SOMRERK KOSOLWITTHAYANANT)

Chi vive in Europa, dove mi trovo temporaneamente, non sente parlare del Myanmar, se non da papa Francesco: sui tg generalisti, in un mese e mezzo mai un accenno delle carneficine operate del regime del generale Min Aung Hlaing. Che tristezza! «Non esistono solo l’Europa e gli Usa, ma anche l’Asia!» (l’Africa e il Sudamerica) : lo ripeto ad amici e conoscenti, che mi guardano increduli. Facciamo per un attimo mente locale su un report delle Nazioni Unite. Perché a fine giugno, una dettagliata relazione dell’Onu, ha messo nero su bianco la situazione delle sanzioni contro il regime militare del Myanmar: e cioè che gli sforzi internazionali per isolare la giunta al potere sembrano aver in qualche modo intaccato la sua capacità di acquistare nuovi equipaggiamenti militari all’estero.

Nonostante ciò, l’esercito del regime è purtroppo ancora in grado di accedere a grandi riserve di denaro accantonate in conti bancari esteri, magari con l’aiuto di prestanome, e pertanto riesce ad acquisire armi per la guerra che ha intrapreso contro le forze anti-golpe, le forze democratiche, la gente del loro stesso popolo e anche contro gli eserciti delle etnie. Un rapporto del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, ha rilevato che il valore delle armi, delle tecnologie a doppio uso, delle attrezzature di produzione e di altri materiali importati dal regime ammonta a 253 milioni di dollari nell’ultimo anno, fino a marzo 2024. Secondo il rapporto, si tratta di un terzo in meno rispetto all’anno precedente, grazie agli sforzi del governo di Singapore per impedire alle sue aziende di rispondere alle richieste della giunta militare. Ancora troppo poco!

Molte aziende occidentali, inoltre, aggirano le sanzioni, facendo passare merci e forniture, che in passato transitavano da Singapore, attraverso la Thailandia. Tom Andrews ha dichiarato alla Reuters che i progressi fatti dal blocco dimostrano che le sanzioni e gli altri sforzi internazionali possono avere un impatto sulla capacità del regime di rifornirsi, e quindi di ridurre la capacità dell’esercito di lanciare attacchi come quelli aerei che hanno ucciso molti civili nei loro villaggi.

Andrews ha esaminato gli acquisti effettuati da entità controllate dal ministero della Difesa della giunta, individuando 630 milioni di dollari in forniture militari tra il 2022 e il 2024. Le esportazioni da Singapore sono scese nell’anno fiscale 2022 da 110 milioni di dollari a poco più di 10 milioni, secondo il rapporto. Tuttavia, la Thailandia ha parzialmente colmato il divario. Aziende registrate in Thailandia hanno trasferito armi e materiali correlati per un valore di 120 milioni di dollari nell’anno fiscale 2023, rispetto ai 60 milioni dell’anno precedente, sempre secondo il rapporto Onu. «Un esempio eclatante è che nel 2023 aziende registrate in Thailandia sono diventate la fonte del Sac per i pezzi di ricambio degli elicotteri Mi-17 e Mi-35 che le aziende registrate a Singapore fornivano in precedenza», si legge nel rapporto. Sac è il nome formale della giunta, cioè Consiglio di Amministrazione dello Stato. «Il Sac usa questi elicotteri per trasportare soldati e condurre attacchi aerei su obiettivi civili, come l’attacco dell’aprile 2023 al villaggio di Pazigyi, nella regione di Sagaing, che ha ucciso circa 170 persone, tra cui 40 bambini».

Il ministero degli Esteri thailandese ha dichiarato giovedì in un comunicato che: «Le istituzioni bancarie e finanziarie del paese seguono protocolli simili a quelli di altri importanti centri finanziari», aggiungendo che il governo esaminerà il rapporto del relatore speciale delle Nazioni Unite. Non ha risposto all’affermazione del rapporto secondo cui entità registrate in Thailandia avrebbero trasferito armi e materiali correlati alla giunta del Myanmar. Inutile aspettare una risposta che mai arriverà! L’unica concessione è stata: «Si tratta di una questione politica che deve essere attentamente considerata, in particolare l’impatto delle sanzioni sulla popolazione in generale», ha dichiarato Nikorndej Balankura, portavoce del ministero thailandese degli Esteri, riferendosi all’approccio generale della Thailandia nei confronti del Myanmar, compresa l’imposizione delle sanzioni. E ha aggiunto: «In passato, la Thailandia ha sempre assunto la posizione di non sostenere alcuna azione che abbia un impatto sulla popolazione».

Al di là delle dichirazioni di forma e dovute, negli ambienti diplomatici e degli analisti di geopolitica, si sa che i generali thailandesi e quelli del Myanmar sono legati da patti ed alleanze ben radicate, impossibili da estirpare. Sono come i tentacoli di una piovra. Troppo denaro è implicato in questa strana alleanza tra vecchi nemici, che oggi vanno a braccetto. Troppo petrolio e gas, troppi interessi militari e, in fondo, lo stesso stile di politica interna ed estera. Il risultato è comunque che chi paga le conseguenze è la gente, le minoranze etniche che combattono nelle foreste, chi è scacciato dalla propria casa, dalle chiese e dai templi. Sì perchè chi spara cannonate o sgancia bombe e missili non guarda in faccia a nessuno: la regione del Sagaing, al centro del Myanmar, è come Gaza, Kiev e il Sud Sudan. Tutti luoghi che hanno in comune una cosa: il grido della gente, le lacrime delle mamme che piangono i loro bambini e mariti uccisi.

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