Trump e l’Asia: da liberatore a disgregatore

In soli quattro mesi, la seconda amministrazione Trump sta modificando la geopolitica mondiale, rendendola sempre più imprevedibile e instabile. Questo vale anche e in particolar modo per l’Asia. Il ministro della Difesa di Singapore, Ng Eng Hen, ha così descritto il cambiamento di immagine dell’America in Asia: «Da liberatore a grande disgregatore e proprietario in cerca di affitto».
Il ministro della Difesa di Singapore Ng Eng Hen. EPA/ANDRES MARTINEZ CASARES

Se il presidente americano è impegnato a realizzare le promesse fatte in campagna elettorale, gli osservatori si rendono conto che alcune di esse sono di difficile – forse impossibile – attuazione. Prima fra tutte, la promessa di risolvere la guerra fra Russia e Ucraina in ventiquattro ore. Nonostante le assicurazioni di amicizia con Putin, gli show televisivi con e senza Zelensky, è sempre più evidente che la questione è complessa e ha spinto il presidente americano a dichiarare in questi giorni di essere deluso dai contendenti e di non escludere di uscire dai giochi – cosiddetti diplomatici – se la situazione attuale dovesse continuare.

La questione dei dazi, poi, nasconde quella che è la vera guerra che Trump ha ingaggiato con quello che ritiene il suo vero nemico: la Cina di Xi Jinping. Qui sta il nocciolo di molte delle decisioni o dei proclami trumpiani. Per esempio, la minaccia di riprendersi il canale di Panama – persino con la forza se necessario – è provocata dal fatto che è il Dragone asiatico a controllare i commerci che passano dall’Atlantico al Pacifico e viceversa grazie a quel “matrimonio fra gli oceani”, voluto e celebrato un secolo fa dall’allora presidente americano Woodrow Wilson. Le minacce trumpiane hanno sortito l’effetto di vedere Panama uscire dagli accordi per la cosiddetta China’s Belt, che la Cina sta lentamente, con pazienza, ma efficacemente disegnando in varie parti del mondo, non solo in Asia. Si tratta di un esempio significativo della geopolitica americana attuale: devi scegliere, con noi o con loro. E quel “loro” sono: il leader cinese, il suo Politburo e il Dragone.

Tuttavia, questa politica dell’aut-aut è aliena alla mentalità dell’Asia, in particolare a quella confuciana e taoista. Ricordiamoci il concetto di yin (nero) e yang (bianco) che ha origine nell’antica filosofia cinese, e che esprime la dualità armonica dell’essere e della natura: notte-giorno per esempio. In tale prospettiva, si può capire il silenzio – spesso assordante – di Xi Jinping nella questione Ucraina, ma anche in quella Israelo-Palestinese. Sulla questione dei dazi, la Cina ha risposto per le rime alle decisioni del presidente americano, rimandando, tuttavia, ad un altro tipo di risposta, più inclusiva. Il presidente cinese, infatti, ha visitato in questi giorni il Vietnam, non a caso. Sebbene il viaggio, che ha toccato anche Cambogia e Malesia, fosse pianificato da tempo, ha subito acquistato un significato importante: una sorta di monito al presidente Usa. Quest’anno, infatti, ricorre il mezzo secolo dalla cacciata degli Usa dal Vietnam e, di fatto, della riunificazione del Paese. Se non fosse chiaro il sottile messaggio subliminale del mezzo secolo trascorso dalla fine della guerra in Indocina, Xi Jinping ne ha mandato un altro inequivocabile: la firma di quaranta protocolli di intesa con Ho Chi Minh City, un vicino con il quale i rapporti non sono stati semplici in passato. Il messaggio è chiaro: dobbiamo unirci per controbattere questa guerra dei dazi imposta dagli Usa. «Le guerre commerciali e tariffarie non hanno vincitori e il protezionismo non ha via d’uscita», ha scritto il presidente cinese in un editoriale pubblicato su Nhan Dan, il quotidiano ufficiale del Partito comunista vietnamita. «Dobbiamo difendere con fermezza il sistema commerciale multilaterale, mantenere la stabilità della produzione globale e delle catene di approvvigionamento, e preservare un ambiente internazionale aperto e cooperativo». Contemporaneamente, sul Quotidiano del Popolo, organo di informazione del Partito comunista cinese, è apparso un intervento del segretario generale del Partito comunista del Vietnam, To Lam, che ha attribuito alla fiducia, alla sincerità e alla comprensione reciproca il merito delle relazioni globali tra i due Paesi. La Cina, dunque, con pazienza sta cucendo rapporti di collaborazione, soprattutto in Asia, da dove potrebbe venire una risposta pericolosa per Trump.

Gli Stati Uniti sanno di dipendere da Pechino a causa del loro esorbitante debito pubblico e, senza dubbio, trovano degli alleati anche in Estremo Oriente – sia pure di forza e con motivazioni ben diverse fra loro – dove Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno stretto un patto per difendersi dallo scomodo immenso vicino di casa cinese. Anche le Filippine sono tradizionalmente allineate agli Usa. Tuttavia, il sud-est asiatico, anch’esso parte dell’Asean insieme alle Filippine, sta giocando sull’equilibrio fra le garanzie di sicurezza fornite dagli Usa e la consistente crescita di investimenti diretti che provengono dalla Cina, che è attualmente il partner commerciale di maggior rilievo per tutte le nazioni dell’Asean, con l’esclusione di Singapore. Sebbene molti in quella parte di Asia nutrano una certa sfiducia nel gigante cinese, tuttavia, la politica dei dazi di Trump e la guerra che Israele ha ingaggiato con i palestinesi a Gaza hanno fatto pendere la bilancia della fiducia decisamente verso Pechino piuttosto che verso Washington.

In definitiva, in tutto il sud-est asiatico gli Usa sono superati dalla Cina in quanto a iniziative economiche e commerciali multilaterali, in infrastrutture e commercio spicciolo, se non altro per una questione di vicinanza geografica e, con alcuni governi, anche ideologica. L’opinione pubblica in Asia, inoltre, percepisce la Cina come il superpotere economico più influente e attivo nella regione e non si fa fatica a rendersene conto girando da un Paese all’altro. Inoltre, un po’ tutti i Paesi asiatici – Vietnam, Filippine e Thailandia inclusi per non parlare di Giappone, Corea e Taiwan – sono oggetto della politica dei dazi scatenata da Trump. C’è un timore motivato, oggi più che mai, che la presenza americana in Asia, soprattutto nel sud-est e nel nord-est Asia, non sia più percepita in modo positivo. La rivista americana Foreign Affairs riferisce di un significativo intervento del ministro della Difesa di Singapore durante la Conferenza sulla Sicurezza, tenutasi a Monaco, in Germania, nel febbraio scorso. Il ministro dello Stato-isola ha affermato che il ruolo degli Usa in Asia è passato dall’essere “liberatore” a quello attuale di “disgregatore”. Un monito che l’amministrazione Trump farebbe bene a tener di conto.

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