Georgia, tra Europa e Putin

Come altri Paesi che facevano parte dell’universo del socialismo reale, Tblisi esita tra un radicamento a Bruxelles e una muta sottomissione a Mosca
(ph M. Zanzucchi)

Giovedì Santo in uno sperduto santuario della regione viticola del Kakheti, sotto l’imponente catena montuosa del Caucaso, a 25 km dal confine con il Daghestan, cioè con la Russia di Putin.

Il fervore dei fedeli, armati di ceri di dimensioni ragguardevoli, è ormai sconosciuto da noi. Contadini, allevatori ma soprattutto vignaioli, gente umile, le mani non sono quelle degli intellettuali. Qui a Gremi – sotto affreschi che paiono di notevole fattura e di antica pittura, seppur anneriti dal fumo delle tradizionali candele giallognole che bruciano su candelabri dorati sparsi un po’ ovunque –, la chiesa è gremita di uomini e donne e vecchi e bambini, e pure giovani, in un calore umano che si mischia con gli effluvi dell’incenso abbondantemente elargito dai celebranti. Una vecchietta mi fa spazio, sorriso bianco e oro, come in epoca sovietica. Mi dicono che si è pregato per la Georgia, soprattutto, ma anche per la Russia.

La chiesa degli Arcangeli a Gremi (ph M. Zanzucchi)

Da 20 anni e più, mancavo da questa terra di frontiera che, mai dimenticarlo, era la patria di Stalin in persona. Ero venuto qui per l’ultima volta nel 2008, durante la “guerretta” tra la Georgia di Saakashvili, che guardava all’Occidente con aspirazioni grandiose, e la Russia che stava diventando feudo indiscusso di Vladimir Putin. Pochi colpi sparati: avevo reso visita a qualche soldato ferito, avevo fotografato le barchette della marina georgiana affondate nel piccolo porto di Poti e avevo portato un po’ di pane agli assediati di Gori con un piccolo convoglio della Caritas georgiana. Avevamo superato 7 posti di blocco russi, perché ai soldati davamo pane e vino, merce rara. Putin aveva stravinto, e la stella di Michail Saakashvili cominciava a tramontare inesorabilmente: ora è in carcere in Georgia. Allora Mosca aveva acceso i lampeggianti: guai a entrare nel giardino di pertinenza nostro, chi si azzarda verrà punito.

Tanta acqua è passata sotto i ponti, anche se oggi pare di essere tornati indietro nel tempo. Il presidente – un altro Michail, ma Kavelashvili – è filorusso, ma il Paese è spaccato in due: non a caso mi ritrovo per caso in mezzo a una delle quotidiane manifestazioni filoeuropeo organizzate davanti al Parlamento da studenti, da giudici (sull’avveniristico palazzo di giustizia sventolano le bandiere georgiane ed europea!) e dalla società civile: la polizia è tanta, vengo beccato a scattare qualche foto e mi obbligano a cancellarle per evitare guai maggiori, come altri d’altronde.

Cambio di scena. Nella magnifica città di Sighnaghi, patrimonio Unesco, e lo merita, con alcuni amici georgiani sorbiamo un caffè su una terrazza sospesa sulla valle dell’Alasani e sullo sfondo della interminabile catena montuosa del Caucaso, parlando proprio della paura dei russi e di una possibile invasione della Georgia, soprattutto dopo che Trump ha sparigliato le carte. Qualcuno pronuncia il nome “Putin” proprio mentre arriva una cospicua comitiva russa, i turisti europei sono ormai pochissimi. Una donna imbellettata di brutto si piazza davanti alla nostra tavola, mette le mani ai fianchi e, ridendo sguaiatamente, ci dice in russo: «È finita la pacchia, Putin vincerà sempre». Vedo lo smarrimento negli occhi dei miei amici, che poi sottovoce mi traducono quella dichiarazione di sfida, e ce ne andiamo rapidamente.

Pensavo che le paure di georgiani fossero eccessive, ma l’episodio di Sighnaghi, la messa di Gremi e la cancellazione delle foto nel viale Rustaveli a Tbilisi mi dicono che forse qualcosa di grave qui potrebbe anche accadere nei prossimi anni. Il popolo georgiano ha paura, soprattutto gli anziani che hanno conosciuto il socialismo reale. Il presidente attuale è sì sostenuto dai filorussi, ma una buona percentuale dei voti che lo hanno portato al potere viene da questa fetta di popolazione impaurita, che preferisce un presidente che ammicchi a Mosca, piuttosto di un avventuroso che voglia che la Georgia integri l’Unione europea. Le analogie con la guerra d’Ucraina sono evidenti. C’è da meditare, i venti di guerra spirano anche nel Caucaso.

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