La profezia di Neve Shalom Wahat al-Salam oggi

Dialogo intervista con Brunetto Salvarani, tra i maggiori esperti del dialogo ebraico cristiano e referente in Italia del villaggio cooperativo nel quale vivono assieme dal 1972 ebrei, cristiani, musulmani e persone di altri fedi e convinzioni. Un seme di pace tra le polarizzazioni estreme
Bambini della scuola NSWAS. Foto Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam

Brunetto Salvarani ha raccontato nel suo libro “Un tempo per tacere e un tempo per parlare” pubblicato da Città Nuova una biografia personale che ha molti tratti in comune di una generazione che ha creduto nella possibilità di cambiare in meglio il mondo. In questo momento di grande oscurità occorre saper attingere da chi proviene da una storia popolata da tanti testimoni credibili che hanno saputo vedere nella notte.

Oggi la guerra ci pone di fronte ad uno scenario di profonda lacerazione all’interno della comunità cristiana perché è “la” questione dirimente. Non si tratta di divagazioni teoretiche, perché l’Unione europea sta decidendo un vasto piano di riarmo nel pieno del cambiamento d’epoca segnato dal conflitto in Ucraina e dalla tragedia senza fine nella cosiddetta Terra Santa.

Foto Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam

Brunetto Salvarani è da sempre il referente in Italia di Neve Shalom Wahat al-Salam (NSWAS), una profezia concreta in un contesto in cui sembra che non esista più alcuna salvezza: da anni esiste in Israele una comunità dove convivono ebrei, musulmani, cristiani e persone che non si riconoscono in alcun credo religioso. Neve Shalom Wahat al-Salam (NSWAS) si definisce «un villaggio cooperativo nel quale vivono insieme ebrei e palestinesi, tutti di cittadinanza israeliana. Equidistante da Gerusalemme e da Tel Aviv, fu fondato nel 1972 su un terreno di 100 acri preso in affitto dal vicino monastero di Latrun».

Iniziamo il nostro dialogo con Salvarani (teologo, saggista e critico letterario), dall’attualità, dal documento sottoscritto, a cominciare dal Laboratorio anti razzista di Milano, da alcuni ebrei italiani per prendere le distanze e condannare la linea politica di Netanyahu rendendo evidente le spaccature all’interno della piccola ma importante comunità ebraica in Italia.

Anche il rabbino Riccardo Di Segni ha, invece, criticato il papa durante il momento di dialogo dedicato a gennaio alla giornata di amicizia ebraico cristiana che precede, a gennaio, la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Assistiamo ad “Un percorso difficile anche per Dio”, come recita il titolo dell’ultimo libro di Salvarani, editto da Effatà, dedicato al rapporto tra cristianesimo ed ebraismo.

A che punto stiamo di questo cammino?
Ciò che è accaduto dal 7 ottobre in poi incide pesantemente nel dialogo cristiano-ebraico. È un momento apocalittico, nel senso che è rivelativo di una situazione che in realtà esisteva già e non può essere semplicemente legata a un gesto del papa o a una frase del patriarca Pizzaballa o a uno scritto di un teologo. È un problema che viene da lontano e che è collegato, secondo me, in maniera naturale al fatto che questi 20 secoli di insegnamento del disprezzo da parte dei cristiani verso gli ebrei sono un tempo eterno. Non bastano i  pochi decenni che ci separano dal Concilio per vedere i risultati di una terapia efficace. Questo è lo scenario con il quale comunque dobbiamo sempre fare i conti.

Un panorama comunque frastagliato, quello degli ebrei italiani…
Parliamo di 30 mila persone che vivono in 21 comunità, nessuna a sud di Napoli, con forti frazionamenti interni tanto che la famosa battuta secondo cui se ci sono due ebrei, nascono tre partiti è perfetta e la dice lunga.

Che tipo di consapevolezza esiste di questo dialogo nella Chiesa cattolica?
Se penso alle parole del cardinal Martini, che dal mio punto di vista è colui che si è spinto più avanti nella riflessione sui rapporti tra cristiani ed ebrei e tra cristiani ed Israele, devo riconoscere che non è penetrato nel vissuto delle comunità e nel vissuto dei cattolici. Il tema di fondo è che siamo ancora all’interno di un modello sostanzialmente sostituzionista (cioè della Chiesa che ha preso il posto di Israele nel rapporto con Dio nel piano di salvezza dell’umanità, ndr). Magari non usiamo più espressioni come nuovo o vero Israele per indicare la Chiesa, ma siamo ancora persuasi che il Nuovo Testamento valga più del Primo Testamento. Il fatto che Gesù fosse ebreo è considerato più o meno casuale. Avrebbe potuto benissimo essere persiano o romano e non cambiava nulla. C’è un lavoro importante da fare che naturalmente non si fa in tempi brevi.

Ma esistono gesti forti e prese di posizione da parte dei papi…
Certo esistono gesti importanti da parte del magistero più alto della Chiesa. Molto di più è difficile immaginare. Non solo le visite alla sinagoga, ma i discorsi decisivi come quello del 1980 di Giovanni Paolo II a Mainz sull’alleanza mai revocata con Israele. Un discorso chiave ma del tutto dimenticato. Credo molto a un lavoro più di base, legato a delle scelte degli istituti religiosi, delle facoltà teologiche, delle parrocchie, delle diocesi, delle comunità, dei movimenti. È qui che paghiamo ancora una grande arretratezza. Stiamo parlando di un elemento strategico dell’identità cristiana, come descritto nella dichiarazione conciliare Nostra Aetate al n.4: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti».

Perché è così importante?
È il problema di fondo che, secondo me, aveva fotografato perfettamente Paolo De Benedetti, uno dei miei maestri. Andare alla radice del rapporto vuol dire scrutare dentro l’identità della Chiesa, vuol dire guardarsi dentro, vuol dire capire che questi legami non sono legami periferici, non sono legami contingenti, sono legami strutturali e vuol dire alla fine, come si può intuire, anche mettere in crisi la stessa nozione di religione, perché, alla fine, qui siamo di fronte a due religioni? Sì e no.

L’ebraismo è una religione? Sì e no. Noi siamo una religione? Sì, lo siamo, ma a questo punto ne vediamo tutti i limiti. Lo ha reso chiaro il magistero di Dietrich Bonhoeffer in una situazione chiave, il kairos di Auschwitz e della Shoah, che ci ha detto tutta la pochezza del nostro annuncio evangelico. Non siamo riusciti a evitare la catastrofe della soluzione finale, nonostante annunci, predicazioni, sermoni. Anche la Chiesa luterana si è allineata e la Chiesa confessante, il solito resto di Israele, capitanata da Barth e Bonhoeffer, purtroppo non è riuscita a cambiare le cose.

E in questo nostro tempo?
Oggi noi ci troviamo in una fase in cui la religione cristiana è messa fortemente alla prova. Io credo che stia mostrando i propri limiti e papa Francesco ne è consapevole. Da questo punto di vista credo che anche il suo papato sia un papato apocalittico, nel senso che ci rivela tutta una serie di limiti. Lui dice che è  importante avviare processi, certo, però bisogna poi dare corpo a questi processi. Talvolta si ha l’impressione che i processi si avviino senza una sostanza reale, come dimostra il processo sinodale in corso.

È un cammino nuovo da portare avanti…
Mi sembra che sia ancora in una fase ancora molto iniziale, mentre tutto intorno stiamo vivendo, come dice lo stesso papa Francesco stesso, una fase di rapidizzazione della storia. Noi oggi avremmo bisogno invece di una rapidità di intervento e di una capacità di analisi coraggiosa che purtroppo non si vede. Uno dei motivi per cui oggi la malattia di papa Francesco è vista come un problema importante, molto al di là delle file cristiane, è che la sua voce resta una delle pochissime capace di dire la verità sulle cose. Come dall’ospedale ha detto una cosa vera che tutti capiscono: «Vista da qui, dal letto di un ospedale, la guerra appare sempre più assurda». Per me è un capolavoro. Perché è vero che nel momento in cui sei nella fase della fragilità assoluta del limite e della sofferenza, un evento come la guerra appare davvero ancora più insensato e dovrebbe portare a un impegno straordinario per fermarla.

E invece cosa sta accadendo?
Girando un poco per l’Italia devo dire che ci sono in effetti esperienze belle e positive che però non fanno massa critica. Esistono gruppi assolutamente minoritari che avvertono il bisogno di un salto di qualità, perché purtroppo il clima generale è di altro tipo, nonostante la buona volontà. Lo vedo qui nella diocesi di Modena Carpi dove c’è un vescovo molto bravo, don Erio Castellucci, ma non so quanto questa urgenza sia avvertita nel corpo della CEI.

Provando a leggere i segni dei tempi, anche oggi non ci troviamo davanti al dilemma di Bonhoeffer? Vediamo ad esempio il diffondersi di correnti teologiche, come quella della prosperità e dei cristiani sionisti, che giustificano la violenza e la sopraffazione. È una situazione irrisolvibile? La polarizzazione estrema rende impossibile il dialogo?
In questo momento è esattamente così. Il patriarca Pizzaballa ci ha invitati a non dividerci in tifoserie, sul conflitto israelopalestinese, cosa che anche ai palestinesi non giova minimamente, e invece noi ci siamo prontamente schierati. Ma il sionismo cristiano, la teologia della prosperità, un certo pentecostalismo stanno producendo semi di odio e non semi di compassione. Ricordo invece la lezione del teologo Johann Baptist Metz sulla compassione come programma universale del cristianesimo a partire dall’analisi di Auschwitz. Tra l’altro questo potrebbe essere una grande opportunità rispetto al dialogo interreligioso, perché ci avvicinerebbe a al mondo orientale e al buddhismo. Oggi io dico sorridendo amaramente che in questo momento abbiamo perso, in questo momento siamo sconfitti, il dialogo è considerato la medicina degli imbelli. Eppure tutto questo solo non mi scoraggia, ma ovviamente mi invita a lavorare di più.

Quali sono gli aspetti più preoccupanti della situazione odierna?
Realisticamente non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione come questa, con una crisi degli organismi internazionali e di tutti coloro che cercano di creare, di costruire ponti davanti al prevalere di coloro che piantano la bandierina identitaria. Ancora una volta noi cristiani dobbiamo ribadire una concezione della terra, «siamo pellegrini e stranieri su questa terra», descritta nella lettera a Diogneto, per quanto nella storia l’abbiamo tradita mille volte, e in quella meravigliosa lettera pastorale di don Giovanni Franzoni, un caro amico, che nel 1975 diceva “La terra è di Dio”. La terra è di Dio e quindi, se la terra è di Dio, non è nostra.

L’abate di san Paolo parlava dell’annuncio giubilare ad una città ferita dalle speculazioni edilizie. Ma questi riferimenti non si sono persi nel tempo?
È così, per questo sostengo che è tempo di  ricucire, di ripartire, di ricominciare, di ridire da capo. Mi rendo conto, nei miei corsi di teologia, che l’ABC va ripreso continuamente. Ormai, parlando del concilio ai trentenni di oggi sembra di far riferimento all’archeologia punica…

Avviene così anche ai preti giovani?
In maniera particolare c’è tabula rasa per molti di loro. Per come funziona oggi il tempo, un evento di 60 anni fa è un evento davvero lontano. Occorre ricominciare da capo con pazienza una dimensione il più possibile di comunità in un mondo che ci invita invece a essere sempre più individualisti. Le uniche comunità che funzionano oggi sono quelle che ti legano perché senti di avere un’identità e degli interessi comuni. Con coloro con cui vai a messa spesso non ce l’hai, mentre l’Eucaristia è il cuore dell’essere cristiano.

Foto Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam

In tutto questo scenario sorprende la resistenza di una comunità come Neve Shalom Wahat al-Salam. Come è nata?
Ho conosciuto abbastanza bene Bruno Hussar, il padre domenicano che l’ha fondata, e mi viene da pensare che il Villaggio della pace resiste perché le sue radici erano solide. Bruno ha fondato anche l’opera di San Giacomo, cioè la chiesa in lingua ebraica in Israele. Ha fondato la Maison Saint Isaie a Gerusalemme, il luogo dove si leggeva la Bibbia; nei luoghi della Bibbia, ha dato una mano discreta allo stilare il paragrafo 4 della Nostra Aetate e poi, a un certo punto, si è reso conto che c’era bisogno di un ulteriore salto di qualità. Produrre pace tra chi viveva una contrapposizione quotidiana, cioè ebrei, cristiani e musulmani.

Oggi il Villaggio della pace presenta i segni di  una progressiva secolarizzazione, ma  tutto questo è normale. Le fondamenta però sono quelle, e le fondamenta sono importanti, tant’è vero che oggi anche le generazioni più giovani del villaggio comunque riconoscono che se non ci fosse stato quell’imprinting iniziale, il villaggio sarebbe stato un’altra cosa.

A cosa si deve la secolarizzazione di questa esperienza che resta straordinaria?
Mentre la primissima generazione veniva da una spinta di tipo religioso, si deve dire che anche i musulmani avvertono il clima complessivo di Israele che, al di là delle derive identitarie, è simile a quello di un Paese occidentale. Ma proprio questa secolarizzazione permette in un clima di radicalismo montante di avere un terreno comune che non sia pervaso da questo tipo d’approccio.

Foto Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam

Una strada difficile da percorrere in tale contesto…
Infatti la scuola per la pace è stata bruciata tre volte da ignoti durante il Covid, quindi 4 anni fa. Comunque il villaggio, nato come punto di riferimento ideale ma non strutturato, è poi stato ufficialmente riconosciuto dallo stato di Israele, quindi si fa un po’ fatica a far finta di niente.

E dall’altra parte ci sono istituzioni solide, forse la più solida delle quali è la scuola del villaggio, perché la scuola del villaggio è stata la prima in Israele in cui si insegnava l’ebraico e l’arabo, quindi facendo proprio la lezione di don Milani, per cui l’insegnamento della lingua è un fatto politico. Questo ha fatto sì che la scuola sia diventata nel corso degli anni un punto di riferimento anche per i villaggi vicini, da dove arrivano parecchi bambini e bambine di famiglie ebraiche, musulmane e cristiane.

Quanti sono gli abitanti stabili di Neve Shalom?
Sono circa 450 abitanti tra cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici…

Come è nata l’idea del tempio del silenzio a forma circolare?
Hussar aveva pensato ad un luogo di preghiera a forma triangolare delle tre fedi perché si rendeva conto che la deriva identitaria in Israele, e a Gerusalemme in particolare, era fortissima. Padre Bruno faceva parte di tutte le combriccole dialogiche in Israele e nello stesso tempo diceva: «Se c’è un luogo e una città in cui è dura fare dialogo in religioso è Gerusalemme». Ma poi un suo amico ebreo americano gli ha detto: «E io che sono agnostico dove mi colloco? Non c’è spazio per quelli come me?». Da qui l’idea del luogo circolare e senza contrassegni religiosi per mandare un segnale chiaro rispetto alle derive identitarie crescenti, perché Hussar era come la civetta che vedeva nella notte.

Noi in quegli anni ne abbiamo avute tante. Adesso ne abbiamo meno. Senza aprire una discussione sul pontificato di Giovanni Paolo II, bisogna ad esempio riconoscere la grande intuizione dell’incontro il 27 ottobre 1986 delle religioni ad Assisi per la pace. Il papa polacco vedeva lontano, nell’esigenza di costruire ponti e non muri in un periodo ancora lontano dall’11 settembre 2001. Ne approfitto per confessare che ho sempre ammirato il carattere profetico del Movimento dei Focolari nel mondo nella sua capacità di dialogo interreligioso e non solo, così come credo che la collana patristica di Città Nuova sia una grande risorsa per attingere alle fonti autentiche del cristianesimo…

Hai raccontato l’esperienza diretta dei kibbutz laici e socialisti come quelli colpiti il 7 ottobre 2023 da Hamas vicino il confine di Gaza. Parliamo di un’esperienza ormai finita?
Certo nel 1979 era un’altra era che risentiva dell’onda lunga dell’Israele pioneristico. Il kibbutz che ho frequentato allora durante il mio primo viaggio in Israele aveva una cornice tradizionale ebraica, ma quelli che li abitavano non erano particolarmente religiosi.

In queste realtà abitavano persone come Vivian Silver che ha dedicato la vita ad aiutare i bambini di Gaza ma è stata la prima ad essere uccisa dai fondamentalisti di Hamas. Eppure gli estremisti islamisti dicono: «Se noi non avessimo fatto il 7 ottobre saremo scomparsi alla vista del mondo in forza degli accordi di Abramo fatti sulla nostra pelle dai Paesi arabi. Come a dire che non c’è altra strada che la lotta violenta. Recentemente, invece, è venuto in Italia un gruppo di cristiani di più confessioni del movimento Kairos che propone la resistenza nonviolenta chiedendo di condannare le tesi dei cristiani sionisti e sostenere il boicottaggio dei prodotti e investimenti in Israele per fermare l’occupazione dei territori palestinesi e la violenza dei coloni sostenuta dal governo israeliano. Una questione lacerante perché è sempre pronta l’accusa di antisemitismo. A tuo parere è corretto associare l’opposizione all’ideologia sionista con l’antisemitismo?
Ma no, evidentemente no. L’accusa di antisemitismo ormai è diventata risibile. Insomma, un conto è il pensiero sionista che occorre ricordare che nasce laico e che coltiva un sogno, parliamo di Theodor Herzl, ma poi diventa qualcosa d’altro. Israele nel 1948 nasce come Paese laico. Le cose cambiano negli anni ’80 in cui complessivamente noi assistiamo a quella che Gilles Kepel ha chiamato “la rivincita di Dio”. Ed è la rivincita di quel Dio degli eserciti, del Dio integralista, del Dio contro gli altri dèi. Ed è lì il problema, per cui si arriva ad accusare persone di grande spessore come Anna Foa che ha denunciato in questa deriva “Il suicidio di Israele”, come recita il titolo del suo prezioso libro.

La Foa ha avuto molto coraggio e mostra una grande conoscenza dei fatti. Non ha paura di esporsi, lei dice, perché ha una certa età, ma anche perché l’ha sempre fatto, in realtà. Le sono grato.

Il ritorno del Dio degli eserciti lo stiamo vivendo in Europa?
Oggi siamo abituati a leggere le cose in maniera assolutistica, anche se non ce ne accorgiamo. Di fronte a Trump che si muove in maniera dettata solo dal calcolo della logica commerciale ed è pronto a mollare l’Ucraina, come visto in diretta tv nello scontro con Zelensky, si è arrivato al paradosso di usare le insegne dell’Europa per giustificare il riarmo in un concatenamento che appare spaventoso.

Una chiamata alle armi praticamente?
Un’Europa che non riesce a darsi le ragioni ideali e politiche della sua unità, lo fa sulla base delle armi.

Ma questa è un’impostazione che viene da lontano nella lettura di Ursula von der Leyen e di Mario Draghi in linea con la politica estera di Biden e del suo segretario di stato Blinken fondata sulla visione di Michael Walzer, della guerra giusta e della sua teologia politica che conduce ad arrivare alle estreme conseguenze.
Sì, devo dire con molta franchezza che all’inizio di questa guerra in Ucraina ero lacerato, come credo in tanti. Perché da una parte in gioventù ho fatto l’obiettore di coscienza, e dall’altra l’opposizione alla brutalità di un’aggressione da parte di una figura largamente ambigua con il rischio che quello fosse solo l’antipasto di future invasioni e aggressioni in cui chi ci rimette di più sono sempre i più poveri e gli indifesi. Poi quando il papa ha incominciato a parlare, si sono iniziate a intravedere prospettive diverse, ho visto la posizione di Avvenire con Tarquinio e di diversi movimenti pacifisti, non solo cattolici. E allora mi sono detto: proviamoci, lavoriamo in questa direzione. È il nostro compito adesso: grazie a Francesco che ci aiuta a smascherare una narrazione che alimenta l’ecumenismo dell’odio.

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