I limiti e i sorrisi

L’uomo è un animale sociale, eppure nulla più della vita sociale è fonte di sofferenza e dolore. Quei luoghi
comunitari da cui nasce la nostra più grande felicità – famiglia, amicizia, lavoro, amore… – sono gli stessi luoghi delle ferite più profonde.
Fino a pochi decenni fa, le comunità stavano insieme grazie ad uno strumento principale: la gerarchia. Padri, re, sacerdoti, erano anche degli strumenti per risolvere i conflitti interpersonali, o per non farli emergere. Monasteri e conventi tenevano assieme molte persone grazie alla presenza di superiori (il nome dice già molto), che svolgevano la funzione di mediatori nei rapporti. Sr. Anna non si incontrava direttamente con sr. Bruna, ma si passava per un terzo, madre Carla, che si trovava sopra le due e impediva che l’incontro fosse troppo diretto e quindi pericoloso. Inoltre, nelle comunità monastiche c’è la regola, la grande eredità dei fondatori, che media, insieme alla gerarchia, i rapporti comunitari. E anche se la vita era in comune, in realtà la gerarchia e la regola facevano sì che ognuno interagisse con tutti senza dover “toccare” nessuno. Le amicizie particolari scoraggiate, i percorsi spirituali troppo soggettivi stigmatizzati, le interazioni periferiche e laterali sconsigliate, tutto per salvare l’ordine e la sopravvivenza della comunità. Le abbazie sono andate avanti per secoli anche perché la gerarchia e la regola hanno impedito, o contenuto, i conflitti interpersonali.
Nei movimenti spirituali nati nel secondo Novecento nella Chiesa cattolica, è avvenuto qualcosa di analogo, ma anche di molto diverso. La presenza del fondatore nella prima stagione dei movimenti, e dei suoi rappresentanti a livello locale, svolgeva una funzione molto simile alla gerarchia e alla regola nelle comunità monastiche. Il carisma del fondatore era talmente luminoso da impedire (quasi) di “vedere” i difetti e i limiti degli altri, e propri: la sua luce abbagliava tutto e tutti. Ciascuno guardava soltanto il carisma e la sua missione, e non gli restava né tempo né spazio per guardare accanto e scoprire i difetti e i limiti degli altri. Le energie emotive non venivano impiegate (e sprecate) per risolvere i conflitti intracomunitari, ma spese per convertire e diffondere il carisma e il movimento. E le comunità crescevano. Con la scomparsa dei fondatori, il contesto è cambiato e si è complicato. In primo luogo, anche se i fondatori di questi movimenti hanno, in genere, scritto una regola, la funzione della regola in queste nuove comunità non è quella delle antiche comunità monastiche. Sono invece più simili al caso di san Francesco e dei movimenti mendicanti. Come ci ha insegnato Giorgio Agamben (Altissima povertà, Neri Pozza, 2011), ciò che veramente contava per Francesco non era l’adesione ad una regola ma alla forma di vita (quella del Vangelo). Un frate che non vive come Cristo non è un frate, né una suora è suora, anche se seguono perfettamente la regola. I loro atti e parole non sono separabili dalla loro vita.
Certo, anche i frati e le suore sbagliano, peccano, sono incoerenti, ma i loro atti non sono protetti dalla fedeltà alla regola. Un frate che perde la forma di vita perde tutto, nessuna fedeltà alla regola lo può salvare. Un benedettino in crisi si poteva salvare attaccandosi alla regola e alla liturgia; un francescano in crisi ha solo una possibilità: convertirsi e tornare alla forma di vita. Per questa ragione, i movimenti sono più fragili dei monasteri, perché nessuna regola può svolgere una funzione vicaria di salvezza. Questa fragilità è espressione dell’altissima povertà del Vangelo.
Anche i nuovi movimenti sono nati come nuda forma di vita, perché ogni esperienza carismatica comunitaria, incluso il primo monachesimo e le sue molte riforme, nasce solo così. E così, quando il fondatore scompare, queste comunità si ritrovano molto fragili perché per continuare hanno solo la fedeltà personale al carisma. Dopo il fondatore, le comunità vivono solo se ciascuno è fedele alla forma di vita carismatica, le crisi non si risolvono né con la gerarchia né con la regola. Si riesce a vivere solo se si prova a guardare ancora avanti, e non accanto. In una comunità viva e generativa i limiti e i difetti che scopro nell’altro diventano strade per entrare nella sua anima, per coltivare quella tenerezza che nasce di fronte ad un vuoto di un fratello, che finisce per essere amato non “nonostante” i suoi limiti ma “grazie” ad essi. Si vede una mancanza, si fa un sorriso. E poi, senza indugio, si guarda avanti e fuori, per riprendere la corsa.