Caso Almasri, il difficile rapporto tra Cpi e governo italiano
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Diritto
In questi giorni l’opinione pubblica italiana è stata scossa dal cosiddetto “caso Almasri”. Numerose le riflessioni e contrastanti i commenti pubblicati a seguito della scarcerazione e del rimpatrio in territorio libico di Osama Elmasry Njeem.
Rapida l’evoluzione degli eventi che ha fatto seguito all’emissione, avvenuta il 18 gennaio scorso da parte della Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale (Cpi), del mandato d’arresto nei confronti del comandante libico.
IL CASO
Il generale libico Osama Elmasry Njeem, noto anche come Almasri, è il capo della polizia giudiziaria libica e della Rada, la forza di deterrenza speciale. A causa delle modalità con cui ha diretto la prigione di Mitiga, il Procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan aveva chiesto alla Camera Preliminare della Corte, in data 2 ottobre 2024, di adottare nei suoi confronti un mandato d’arresto per presunte gross violations commesse dallo stesso direttamente o indirettamente come autorità di comando nella gestione delle carceri.
Infatti, le indagini portate avanti sul territorio libico a partire da marzo 2011, anche grazie al contributo di un Panel of experts istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con Risoluzione n. 1973 (2011), rendevano sempre più evidente una situazione di gravi irregolarità commesse a danno dei detenuti e dei migranti trattenuti nei centri di accoglienza della provincia di Tripoli. Motivo per cui il Consiglio di Sicurezza aveva segnalato alla Corte il caso, secondo il disposto dell’art. 13 lett. b) dello Statuto di Roma, chiedendo di svolgere indagini.
Il provvedimento che disponeva l’ordine di carcerazione preventiva veniva quindi emesso a maggioranza dalla Camera Preliminare della Cpi in data 18 gennaio 2025, mentre il comandante Almasri si trovava per motivi personali in territorio italiano (dopo essere stato nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Germania). Il mandato aveva ad oggetto presunti crimini contro l’umanità e crimini di guerra che il Sig. Almasri avrebbe commesso per i fatti successivi al febbraio 2011, in territorio libico, nella prigione di Mitiga che dirigeva.
Il mandato veniva trasmesso, tramite red notice dell’Interpol, a sei Paesi e, appurata la presenza del ricercato in Italia, veniva inoltrato dai funzionari della Corte all’Ambasciata italiana all’Aja affinché fosse recapitato, per canali diplomatici, al Ministro della Giustizia quale organo statale competente in via esclusiva a gestire i rapporti di cooperazione con la Corte (art. 2, legge n. 237/2012, “Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale”).
A seguito dell’allerta dell’Interpol, gli operatori della Digos di Torino – dove nel frattempo si trovava Almasri – procedevano al suo arresto nelle prime ore del mattino del 19 gennaio 2025.
In forza della legge n. 237/2012 che disciplina la cooperazione tra l’Italia e la Corte Penale Internazionale, la “comunicazione” relativa all’arresto dell’indagato libico veniva trasmessa dalla Questura di Torino alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma, competente a decidere l’applicazione della misura cautelare in oggetto, per poi essere inoltrata al Ministero della Giustizia.
Il giorno 21 gennaio 2025, la Corte di Appello di Roma, su richiesta del Procuratore Generale, dichiarava illegittimo l’arresto operato dalla Digos di Torino, in quanto la restrizione della libertà personale in via provvisoria, a seguito delle procedure in concreto adottate era da ritenersi esclusa perché non espressamente prevista dalla legge 237/2012.
La procedura da applicare, si legge infatti nell’ordinanza della Corte d’Appello, sarebbe dovuta essere quella di cui all’art. 11 (legge 237/2012), che «non prevede alcun intervento d’iniziativa della polizia giudiziaria». La Corte, pertanto, dichiarava con ordinanza il non luogo a procedere dell’arresto per l’irritualità dello stesso, in quanto non preceduto da interlocuzioni con il Ministro della Giustizia, riconosciuto dalla predetta legge – in applicazione dello Statuto della Cpi – come unico titolare dei rapporti con la Corte Penale Internazionale.
In particolare, la Corte ha rilevato che «in punto di applicazione della misura cautelare, la Legge 237/2012 […] ha prescritto analiticamente il relativo procedimento, in cui non v’è una previsione attinente alla possibilità di intervento “di iniziativa” della polizia giudiziaria», dovendo passare il procedimento irrinunciabilmente dalla ricezione degli atti da parte del Ministro della Giustizia, a cui «compete di ricevere le richieste provenienti dalla Corte (Cpi) e di darvi seguito (art. 2, comma 1)», con la successiva trasmissione degli atti dal Ministro alla “Procura generale presso la Corte d’appello di Roma”.
Il Ministro – osservava il Procuratore Generale –, «interessato da questo Ufficio in data 20 gennaio u.s.» non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito e, di conseguenza, la Corte di Appello di Roma disponeva, in data 21 gennaio, la scarcerazione dell’indagato.
Vista la pericolosità sociale del soggetto, il medesimo giorno il Ministro dell’Interno della Repubblica italiana emetteva un provvedimento di espulsione di Almasri per motivi di sicurezza dello Stato (ai sensi dell’art. 13 comma 1 del TU in materia di immigrazione) e lo faceva rimpatriare con aereo di Stato in territorio libico.
IL MANDATATO DI ARRESTO E I CRIMINI CONTESTATI
Dalla lettura del testo del mandato, rettificato dopo la sua emissione in data 18 gennaio e desecretato in data 24 gennaio 2025 (rinvenibile in https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/RelatedRecords/0902ebd180a94249.pdf), emerge che al funzionario libico erano stati contestati crimini vari e di estrema gravità (tra questi, stupri, torture e omicidio), commessi nella prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2011 in poi.
Al mandato d’arresto, adottato a maggioranza di due giudici a favore e di uno contrario, veniva quindi allegata l’opinione dissenziente del giudice Maria del Socorro Flores Liera, che contestava la giurisdizione della Corte a giudicare i sopracitati crimini, dal momento che i fatti da cui era stata originata la risoluzione del 2011 del Consiglio di Sicurezza (quale base giuridica della procedibilità della Corte) erano da riferirsi a condotte ascrivibili agli esponenti del regime di Gheddafi contro la sua popolazione civile e non all’architettura politica ed istituzionale libica attuale, facendo notare la necessaria distinzione che deve effettuarsi tra la presenza in territorio libico di multipli e successivi conflitti, e non di un medesimo disegno bellicoso.
In ogni caso, la richiesta perveniva principalmente all’Italia, luogo in cui si trovava Almasri al momento dell’emissione del mandato di arresto, e da cui la Corte attendeva piena cooperazione, in conformità con quanto disposto dall’art. 86 dello Statuto Cpi, di cui l’Italia è Stato parte fondatore
Sul piano internazionalistico, quindi, l’Italia potrà essere chiamata a rendere conto alla Corte circa la dinamica dei fatti storicamente verificatisi e la congruità delle decisioni politiche adottate dalle autorità italiane.
Questo è quello che prevede l’art. 87 par. 7 dello Statuto della Cpi, ai sensi del quale la Prima Camera Preliminare della Corte, che ha emesso il mandato di cattura, ha aperto un procedimento contro l’Italia per chiedere spiegazioni circa il mancato adempimento dell’obbligo di cooperazione con la Corte previsto dal capitolo IX dello Statuto.
Ed è sul profilo internazionalistico della vicenda, a fronte del mancato raccordo tra autorità inquirenti, magistratura e Ministero della Giustizia, che si sono espressi i componenti del Consiglio Direttivo della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea con la pubblicazione di un comunicato stampa (https://www.sidi-isil.org/2025/01/26/sulla-vicenda-relativa-alla-liberazione-e-al-rimpatrio-di-osama-elmasry/).
Dalla recente informativa in Parlamento, realizzata dai ministri competenti dello Stato italiano lo scorso 5 febbraio 2025, è emerso tuttavia sul fronte interno che la legge di adeguamento n. 237/2012 presenterebbe delle zone d’ombra, dal momento che prevede una disciplina che si presta a differenti e divergenti interpretazioni e che è stata attuata in questo caso per la prima volta.
In particolare, è stata sollevata l’incoerenza e la presenza di vizi formali e procedurali nell’atto del mandato d’arresto, che dovrà essere ora valutata, posto che se ne è eccepita la nullità.
Certo è che questo atteggiamento di reciproca sfiducia rischia di indebolire entrambe le istituzioni: tanto la Corte, quanto l’Italia. Quel che di sicuro resta è l’alto prezzo pagato dalle vittime.
Qui l’articolo sul dibattito parlamentare sulle relazioni dei ministri Nordio e Piantedosi