Una proposta concreta di democrazia economica
Come sappiamo la campagna Sbilanciamoci, promossa da una rete attiva della società civile in Italia, permette di avere un quadro preciso delle scelte decisive operate dal governo Meloni in una prospettiva che va oltre il 2025. «La legge di bilancio 2025 ci porta in dono un aumento delle spese militari del 12% rispetto al 2024: ben 32 miliardi di euro. Previsti ben 40 miliardi in tre anni per costruire e acquistare nuovi sistemi d’arma. Nello stesso tempo la sanità continua ad essere drammaticamente sotto finanziata, così come il trasporto pubblico locale».
L’obiettivo del 2% del Pil da destinare alle spese militari è stata una richiesta costante degli Usa nei confronti dei Paesi Nato. «Patti chiari, amicizia lunga» furono le uniche parole pronunciate in italiano da Barack Obama durante la sua visita a Roma nel 2016.
Ora la politica estera di Trump lancia proclami che alzano al 5% il livello di spesa militare richiesta agli “alleati” europei. Obiettivo raggiungibile da alcuni stati ex appartenenti al Patto di Varsavia come la Polonia che ha stretto una forte alleanza strategica con Francia e Germania, il cosiddetto triangolo di Weimar al quale vorrebbe aggregarsi anche l’Italia.
Di fatto, come emerge da una lunga intervista che ho fatto a Stefano Zara, già presidente di Confindustria Genova, la linea strategica seguita da oltre 30 anni da Finmeccanica, gruppo industriale controllato dal capitale pubblico, è stata quella della concentrazione e della crescita nel settore delle armi dietro il consiglio della società di consulenza statunitense Mckinsey. La stessa che è all’origine di Saudi vision 2030, il grande piano di sviluppo dell’Arabia Saudita finanziato dalle enormi ricchezze dei proventi dell’estrazione petrolifera.
Una capacità di spesa che si rivela decisiva nel mercato mondiale delle armi in cui compare costantemente tra i primi Stati acquirenti. A Riad si svolge con cadenza biennale, il prossimo nel 2026, il World Defense Show, il più grande Expo dei sistemi d’arma pesanti che attrare nuovi clienti e le più grandi aziende produttive, tra cui ovviamente quelle italiane in concorrenza con quelle di altri Paesi occidentali.
La dismissione di aziende di primissimo piano nel campo tecnologico e di innovazione ambientale, si pensi a quelle del trasporto ferroviario cedute ad aziende straniere, è stata all’origine della scomparsa dell’Italia industriale denunciata dal sociologo Luciano Gallino e, confermata, con riferimento alla Liguria, da Stefano Zara che si oppose, senza successo, alla nuova centralità della filiera bellica collegata all’industria statunitense. È ovvio che i vari Ceo di Finmeccanica hanno magnificato in questi anni le prospettive aperte dalla partnership con la superpotenza che, da sola, copre oltre il 40% della spesa mondiale in armamenti, che ha superato i 2.440 miliardi di dollari l’anno.
Si spiega così anche l’ultimo atto compiuto oggi da Leonardo, nome nuovo di Finmeccanica, di svendere l’”Industria Italiana autobus”, decisiva in termini di investimenti per il trasporto pubblico collegato alla transizione ecologica, per puntare invece allo sviluppo del comparto della “Difesa” che , a breve, non sarà più ostacolato nella sua competitività internazionale dalla legge 185, approvata nel 1990 per applicare un limite costituzionale in materia di commercio di armi.
Siamo davanti ad una congiunzione astrale eccezionale come affermato in una recente assemblea dell’Associazione delle industrie del settore (Aiad).
Come afferma Federico Rampini, opinionista influente sui media, è vero che sarebbe preferibile destinare le risorse pubbliche per ridurre le liste di attesa nella sanità o le scuole che cadono a pezzi, ma l’Italia e l’Europa devono capire che in questo mondo occorre avere gli strumenti necessari per esercitare un ruolo geopolitico, dato che non esistono “potenze erbivore”, dotate del soft power della cultura, ma solo “carnivore”, cioè pronte ad usare le armi se necessario.
Secondo questa visione del cosiddetto realismo politico, condiviso da un numero esteso di think tank, uno degli errori più gravi compiuti dall’Italia è stato quello di non aver risposto all’invito di Tripoli di intervenire militarmente per contenere l’avanzata delle truppe del generale Haftar, sostenuto dai russi, aprendo le porte all’influenza della Turchia in quell’area decisamente strategica per i nostri interessi.
Sembra sfuggire in tale analisi, la sudditanza imposta al nostro Paese con la guerra di Libia del 2011 voluta dal complesso militare industriale britannico e francese. Si è scatenato il caos alle nostre porte tanto da portare, nel 2017, il governo di centrosinistra di Gentiloni a siglare il memorandum italo libico di esternalizzazione del controllo dei flussi migratori che pesa sulla nostra coscienza collettiva.
È chiaro oggi che appare molto più persuasiva l’emergenza della “difesa” imposta dalla svolta impressa con la guerra in Ucraina che configura sempre di più quello stato di sonnambulismo che precipitò la generazione del 1914 nel baratro del mattatoio del primo conflitto mondiale.
I sondaggi circa la prevalenza dell’opinione pubblica contro la guerra in Italia non sono rilevanti, a mio parere, perché non si traducono nelle urne, ma sono conosciuti dai centri studi che puntano sulla paura per far crescere una cultura della “sicurezza” dove non esiste l’alternativa tradizionale tra “burro o cannoni”, ma “occorrono i cannoni per difendere il burro”, i caccia per difendere gli asili.
Per tale ragione ogni comparazione formulata dalle campagne di informazione “pacifista” tra la spesa di un F35 o di una portaerei con quello delle bonifiche ambientali o di posti letto in ospedale, viene accolta passivamente come una triste necessità imposta dai tempi.
Per ribaltare l’egemonia della cultura della guerra occorre perciò mostrare una credibile alternativa di politica estera europea non subalterna a strategie altrui.
Occorre partire dai dati delle spese militari Ue che sono già il triplo di quelle russe e possono ridursi evitando la competizione delle imprese dei vari Paesi tenuti a rispettare il limite di non esportare i prodotti ai criminali di guerra. E prima ancora, smontare la bufala delle armi che producono posti di lavoro, perché gli stessi investimenti in settori collegati alla conversione ecologica ne producono molti di più.
Materiale per una vera politica industriale che si può fare solo giocando in attacco con un laboratorio permanente di conversione economica avviato in Italia da alcune realtà sociali assieme a docenti e ricercatori universitari disposti ad offrire il loro contributo concreto.
Il dato di realtà ci consegna il fatto che anche quando alcuni sindacati si esprimono contro la guerra, devono fare i conti con la carenza di una proposta alternativa di politica industriale, finendo per cedere al ricatto occupazionale basato su presupposti non dimostrati.
Si può mettere in discussione, infatti, la teoria che associa produzione di armi a progresso tecnologico e crescita dei posti di lavoro, ma sembra che sia scomparsa nella stessa società ogni istanza di democrazia economica.
È nato così un collegamento sempre più ampio tra diverse realtà della società civile italiana con l’intenzione di promuovere una condivisione di conoscenze, prassi e competenze in grado di dare spazio e articolare una diversa proposta di politica economica e industriale capace di incidere sulle scelte strutturali del Paese
Il laboratorio si è focalizzato finora su due casi concreti ed emblematici.
Il primo prende in esame la città di Torino che vive da tempo un processo di deindustrializzazione segnato dalle scelte della Fiat che ha dettato la politica industriale, e non solo, in Italia, fino a questa fase di progressivo ma deciso distacco dal Paese da parte di Stellantis.
In tale quadro si sta affermando la proposta di Leonardo della centralità di un polo dell’aerospazio che fa passare in secondo piano la priorità oggettiva dell’attività di Leonardo che si concentra nell’ambito bellico. La proposta di una reale alternativa deve indicare le filiere dove orientare le risorse del Pnrr nella prospettiva della transizione ecologica con un ruolo dello Stato che non può essere solo regolatore degli attori privati da attrarre con incentivi e investimenti infrastrutturali.
Il secondo focus è quello relativo al Sulcis Iglesiente, territorio della Sardegna segnato dalla crisi lavorativa del settore minerario e da un tipo di industrializzazione che ha prodotto effetti negativi sull’ambiente. In tale contesto opera il ricatto occupazionale della fabbrica di Rwm Italia, destinata alla produzione di missili e bombe secondo le direttive della controllante Rheinmetall, multinazionale tedesca storicamente attiva nel settore delle armi e dell’automotive e ora al centro del piano di investimento miliardario in armamenti inaugurato dal governo socialdemocratico di Olaf Scholz.
Grazie ad un comitato per la riconversione Rwm e alla rete nazionale e internazionale che lo sostiene, è stato possibile applicare la legge 185/90 con i provvedimenti dei governi Conte che hanno prima sospeso (2019) e poi revocato (2020) l’autorizzazione all’esportazione di missili e bombe verso l’Arabia Saudita il cui governo è il capofila di una coalizione militare attiva nel conflitto armato in Yemen. Con un provvedimento del governo Meloni del 31 maggio 2023 è stata invece eliminata la revoca all’esportazione di armi verso Riad.
Il comitato riconversione ha promosso anche la nascita di Warfree, rete di imprese “libere dalla guerra” come forma di economia che concretamente mette al centro la persona e l’ambiente.
Una direttiva di marcia che, secondo le proposte del laboratorio riconversione, deve orientare gli investimenti del Just transition fund, il fondo europeo destinato alle aree di difficile transizione ecologica e individuate per l’Italia nell’area dell’acciaieria di Taranto e, appunto, nella zona del Sulcis.
Il laboratorio permanente è condiviso finora, in collaborazione con Rete italiana Pace e Disarmo, da: Centro studi Sereno Regis Torino, Economia Disarmata Focolari Italia, Comitato riconversione Rwm e War free, Ufficio Pastorale Sociale del Piemonte e Valle d’Aosta, Iriad – Archivio Disarmo, Centro Studi Pax Christi, The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo, Fondazione Finanza Etica, Ires Toscana.
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