Tregua a Gaza: una pausa dall’orrore o anche una prospettiva?

La tregua di Gaza muove qualche fragile passo. Non c’è da illudersi che questa pausa possa significare la fine del conflitto, ancor meno un cammino di pace. Ma è la cosa migliore venuta fuori dall’orrore degli ultimi 15 mesi
Il pullman con gli ostaggi palestinesi rilasciati da Israele. Ramallah, 20 gennio 2025, Ansa EPA/ALAA BADARNEH

Anche se la speranza e l’entusiasmo per l’annuncio della tregua di Gaza sembrano questa volta più concreti, ci vorrà molto tempo per cavarne fuori qualcosa di buono. E il tempo non c’è: si tratta pur sempre di una tregua complicata, con tanti se, ma e però. Questa tregua non è affatto confortevole, anche se è comunque meglio dei mesi orrendi che l’hanno preceduta. Da quando c’è stato l’annuncio da parte dei mediatori di Doha, mi andavo chiedendo come esprimere onestamente e realisticamente il significato e la portata di questa sofferta speranza che arriva dopo 15 mesi abbondanti di orrore, odio e paura. Potrebbero essere quasi 50 mila i morti, considerando entrambe le parti, e come al solito i militari e i combattenti sono solo una relativamente ridotta frazione di quel numero. E poi ci sono le migliaia di feriti: 110-120 mila, tanti con gravissime conseguenze e nessuna speranza: penso in particolare ai mutilati.

Quello che però la mia mente non riesce ad accettare è l’uccisione di migliaia e migliaia di bambine e bambini: l’Unicef ritiene che potrebbero essere 14 mila. Per il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar (a Rai1), invece, la reazione israeliana contro Gaza dopo all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 non sarebbe stata così “eccessiva”, come qualcuno vorrebbe far credere. «In guerra – ha detto Saar – ci sono sempre le tragedie, la morte di persone che non sono coinvolte», aggiungendo che Israele «ha fatto tutto secondo il diritto internazionale». Di quale diritto internazionale si tratti a me risulta difficile da percepire.

La leader palestinese del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP), Khalida Jarrar a Ramallah, 20 gennaio 2025, Ansa. EPA/ALAA BADARNEH

Un’analisi leggermente più spietata l’ha fatta invece, in questi giorni, Vivian Khalaf, presidente del Pcrf, il Palestine Children’s Relief Fund, associazione fondata nel 1992 negli Usa, che ha detto in sostanza: le reti familiari e di vicinato, il sistema economico, quello culturale, la sanità e l’educazione sono in macerie. Scrive Chiara Cruciati sul Manifesto riprendendo la Khalaf: «Prima di tutto, andranno rimosse quelle [le macerie]. Secondo le stime dell’Onu (ferme a ottobre scorso), il futuro di Gaza pesa 42 milioni di tonnellate di macerie, 11 volte la Grande piramide di Giza. I tempi necessari a rimuoverle: 14 anni. I costi: 280 milioni di dollari ogni 10 milioni di tonnellate. A Gaza sono stati cancellati quasi 200 mila edifici. Rimuovere quel che ne resta, significa scavare nell’orrore: sotto, non c’è solo terra, ci sono cadaveri. Ci sono anche ordigni inesplosi». E aggiunge, in sostanza, che prima di pensare alla ricostruzione degli ospedali, vanno rimosse le macerie. Recuperati i corpi. Ricostruite le fognature. Ricostruite le strade. Senza strade, i camion non possono muoversi.

Queste ed altre crude letture della situazione non consentono troppi irenismi. Tanto più che i due popoli (israeliano e palestinese) sono interiormente e duramente segnati. Queste situazioni non si superano con una tregua, che poi non pochi dall’una e dall’altra parte considerano solo una pausa prima di affrontare la “soluzione finale”. Il riferimento al criminale programma di hitleriana memoria è voluto. A me sembra che a questa prospettiva non si rifacciano solo i più puri e duri di Hamas ma anche i loro analoghi israeliani. Io preferisco chiamare quel metodo “illusione finale”. Mi sembra più realistica l’illusione che la soluzione.

Anche per Maurizio Molinari (Repubblica) la tregua è fragile soprattutto «perché tanto Israele che Hamas la interpretano solo come una tappa verso un obiettivo strategico che permane: eliminare l’avversario».

Mi chiedo se ci sia qualcuno che riesca a superare la paura, l’orrore e l’indifferenza alla sofferenza del “nemico”, qualcuno che sappia guardare almeno qualche metro più in là dell’odio fine a se stesso.

Mi ha confortato un po’ il breve comunicato diffuso in questi giorni dall’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa (Aocts), vale a dire vescovi e capi religiosi delle Chiese cattoliche latina, melkita, maronita, armena, siriaca e caldea. Mi è sembrato di vederci una lucida e onesta comprensione della situazione e delle speranze reali. E mi ha sollevato il fatto che non c’è un filo di sproloquio nel comunicato. È comunque qualcosa di fragile, certo, ma almeno considera fragile la tregua e poi va oltre.

Affermano dunque gli autorevoli membri dell’Aocts: «Siamo consapevoli che la fine della guerra non significa la fine del conflitto. È quindi necessario affrontare alle radici, in modo serio e credibile, le questioni profonde che stanno all’origine di questo conflitto da troppo tempo. Una pace autentica e duratura può essere raggiunta solo attraverso una soluzione giusta che affronti le cause originali di questo prolungato scontro. Ciò richiede un lungo processo, la volontà di riconoscere reciprocamente la sofferenza l’uno dell’altro e un’educazione mirata alla fiducia che porti al superamento della paura dell’altro e della giustificazione della violenza come strumento politico».

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