Viaggio a Gerusalemme ad inizio 2025

Nella Città santa per eccellenza non sembra quasi che Israele sia in guerra. Ma l’inquietudine si sparge come veleno non appena un minimo segno dice il contrario. I nervi dei gerosolomitani sono a fior di pelle
Gerusalemme Foto di Reijo Telaranta da Pixabay

Di questi tempi, non è una meta turistica ambita, Gerusalemme. Israele è in guerra almeno triplice (Hezbollah, Hamas, Golan), anche se al nord la tregua regge in qualche modo. L’unica compagnia aerea di un certo rilievo che mantiene i suoi voli regolari con Tel Aviv è l’israeliana El Al, mentre alcune low cost approntano viaggi sostanzialmente charter per riempire il vuoto nell’offerta, visto che una certa domanda di voli in fondo c’è, in massima parte da parte degli stessi israeliani, o di ebrei della diaspora.

L’aeroporto Ben Gurion accoglie il visitatore con la sua vasta hall in cui chiunque abbia un po’ di esperienza di scali e porti può fare una rapida indagine sociologica sul tipo di passeggeri in movimento: un cinque per cento scarso di turisti – viaggiatori incalliti si direbbe −, un buon dieci per cento di operatori delle organizzazioni internazionali, un altro dieci per cento di esponenti di una delle religioni del Libro.

Insomma, un viaggiatore su quattro non entra nel novero degli ebrei che viaggiano per incontrare le famiglie, in partenza o in arrivo, per ritrovare la calma degli affetti. Ma non manca un certo numero di migranti – i loro sguardi sono i più inquieti −, da qualche tempo in partenza da Israele, una novità: non manca chi non ce la fa più a vivere nel clima di guerra che si respira nella terra che fu di Giuda. Inesistenti, invece, appaiono coloro che in Israele vi vengono per abitarvi: il flusso in entrata sembra ormai esaurito.

Nella Città santa per eccellenza il visitatore di questi tempi ha dinanzi a sé una possibilità inconsueta di visitare i luoghi benedetti delle tre religioni abramitiche senza ostacoli maggiori: tutto è aperto, sì i controlli sono rigorosi, sì i musulmani non desiderano che chi professa altre religioni entri nei luoghi di culto islamici, e così alle porte delle sinagoghe del Quartiere ebraico, ma poco importa, quel che c’è da visitare è tanto, quasi troppo.

Un Padre Bianco ci fa accedere a un piccolo ma incantevole museo, appena terminato e non ancora inaugurato, a Sant’Anna, verso la Porta dei Leoni: anche in clima di guerra si osa spendere energie e soldi per far di Gerusalemme una città ancora più ricca e affascinante di quello che già è. Gli sguardi dei cittadini sono normalmente benevoli verso tutti coloro che vengono da altrove, perché essere visitati è segno che si è ancora vivi.

Ma i nervi sono a fior di pelle. Ogni tanto si ha notizia di un missile sparato dallo Yemen che è stato distrutto da quell’Iron Dome che per tanti è sinonimo di Provvidenza divina, perché dà quasi l’impressione di invincibilità.

Ogni tanto qualche notizia sulle decine di morti giornalieri a Gaza supera la cortina inconfessata dell’oblio, voluto dalla gente più che imposto dalle autorità.

E ogni tanto ci si chiede perché mai ogni abitazione di Israele debba avere una camera di sicurezza, tutta in cemento armato senza cartongesso, con tanto di imposte e porte in acciaio solido, capace di resistere a danni di un certo rilievo.

I ristoranti sono assai frequentati, ma gli addetti alla sicurezza – di tutti i colori di pelle – costituiscono un esercito ben addestrato e onnipresente.

Le chiese, le sinagoghe e le moschee celebrano i loro riti in un fervore religioso contenuto e profondo, più del consueto. Alla Italian Colony, quartiere abitato da gruppi ultraortodossi ebrei, mi chiedo come mai le donne siano trattate dai maschi non diversamente da quanto avviene nelle società musulmane radicali.

Alla Porta di Damasco, un palestinese viene fermato per un controllo. I ragazzini-soldato che svolgono la loro missione salvifica lo trattano come un nemico acerrimo, gli divaricano le gambe con colpi secchi, palpano la sua persona con estrema violenza. Soprattutto, gli sguardi reciproci sono esageratamente colmi d’odio.

La diciottenne che sta di fronte a me in autobus gioca con il suo telefonino come tutte le adolescenti di questo mondo, chissà, forse chatta con le amiche, o con il suo piccolo grande amore. Le sue esagerate unghie false colorate di rosa confetto risaltano stranamente macabre sul nero scrostato del mitra che tiene tra le gambe.

 

Gerusalemme soffre il peso della guerra, soprattutto economicamente. Le imposte di metà delle boutique, e anche di più, sono serrate. Certi quartieri paiono disertati dagli umani, una sensazione strana per una città che di solito rigurgita di uomini e donne impegnati nel difficile mestiere dell’esistenza pur in contesto conflittuale.

Il quartiere ebraico risuona dei canti dei bimbi e degli adulti che inneggiano a Yhwh e alla sua terra promessa. La loro, ovviamente, che va difesa con l’astuzia e la forza.

I check point verso i Territori palestinesi paiono contagocce, passarli è un’impresa, in entrambe le direzioni. Eppure, Gerusalemme avanza lemme lemme nella ricerca della pace, mai stata così lontana.

Ma la Città santa c’è per indicare che la pace prima o poi arriverà. Abbracciata con la giustizia. Lo dicono quei Salmi che vengono letti nelle sinagoghe anche da chi fa la guerra.

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