Ciò che finisce e ciò che comincia
I festeggiamenti per l’inizio dell’anno nuovo mi riportano immancabilmente alla memoria come, da ragazzo, vivevo questa ricorrenza con i miei a casa dei nonni materni. Contemporaneamente mi è capitato di leggere sull’argomento Iniziare e finire, una breve meditazione di Romano Guardini, uno dei filosofi e teologi più significativi del secolo scorso. Il sottotitolo dello scritto, Pensieri per far chiarezza, mi ha aiutato in effetti a decifrare i sentimenti miei e di quanti, intenti ai rituali tipici della notte di S. Silvestro, ci dividevamo tra il “dovere” quasi di essere allegri e certi segreti motivi di tristezza e perfino di timori. Nonna Concetta, poi, viveva in modo addirittura drammatico ogni 31 dicembre, quando riuniti quasi al completo figli e nipoti attorno al grande tavolo del soggiorno per la tradizionale tombolata, sgranocchiando dolci, attendevamo la mezzanotte.
Inizialmente pure lei faceva mostra di partecipare al gioco. Man mano però che si avvicinava l’ora fatidica, scura in volto e silenziosa, sembrava quasi assente. Finché, mentre ci si preparava al brindisi e già si facevano sentire dalla strada i primi “botti” anticipatori della fase acuta dei festeggiamenti, lei si eclissava in camera da letto. Il nonno no, lui rimaneva con noi: serafico e taciturno come sempre.
Figli e figlie, generi, cognate e nipoti, pur abituati a una scena che si ripeteva puntualmente ogni fine d’anno, non volevamo rassegnarci all’assenza della nonna, così qualcuno era incaricato di convincerla a tornare tra noi… Cedeva sì, fino ad accettare la coppa di spumante, ma era evidente che, donna forte quale era, si sentiva umiliata di manifestare quel suo lato debole.
Forse il finire di un anno le riportava alla memoria i suoi cari defunti, come l’amatissimo fratello Salvatore, sommergibilista della Regia Marina morto non durante un’azione bellica ma per un ascesso alla gola. Quelle esplosioni poi, quei sordi boati esterni, quelle esalazioni piriche che saturavano l’appartamento nonostante le finestre chiuse, dovevano ricordarle i bombardamenti su Napoli insieme agli stenti e ai terrori sofferti in tempo di guerra… Povera nonna, altro che festa!
Sì, è sorprendente come Guardini mi abbia aperto uno spiraglio sull’intimo mio e dei miei parenti nell’ultimo giorno di quegli anni lontani. Assodato che ogni realtà umana ha un inizio e una fine, per lui «questo iniziare, in verità, non si verifica solo quando l’uomo viene concepito e nasce, e il finire non si compie soltanto quando egli trae l’ultimo respiro, ma l’iniziare attraversa tutta la sua vita e il finire ha inizio già col primo respiro. Iniziare e finire sono, voglio dire, due forze di fondo, da cui scaturisce la vita – la vita nella sua totalità; ma anche ogni frammento d’essa, fino al più piccolo. Non potremmo sussistere, se non iniziassimo a ogni istante».
Per spiegarsi, egli fa l’esempio di ciò che accade quando, dopo il riposo notturno, riapriamo gli occhi: «Con ogni risveglio avviene qualcosa di nuovo; un giorno che ancora non esisteva», che «è diverso da ogni altro e da nessun altro può essere sostituito», un giorno che «è qualcosa di unico; forse anche solo per il fatto che noi non saremo mai più in questo punto della nostra vita. E questa energia del nuovo iniziare è ciò che soltanto ci rende possibile la vita […]: il fatto che con ogni mattino, con ogni incontro, con ogni dolore e ogni gioia ci venga incontro il nuovo».
A questo punto la riflessione di Guardini si sofferma sulla morte, che da una parte segna il termine della vita terrena, dall’altra – per il credente – un nuovo inizio: la morte – dice – «ha la serietà che sta nell’inesorabilità dell’andare alla fine; ma anche la grandezza del fatto che qualcosa trova compimento, presupposto che questa vita si sia sforzata per divenire piena, completa. Per questo epoche anteriori hanno parlato dell’ars moriendi, dell’arte del morire, ed è dannoso che non se ne parli più. Essa significa, cioè, non solo che si dovrebbe imparare ad accordarsi con la morte, quando non si può più difendersene, ma anche comprenderla come ciò che dà pienezza, come l’ultimo conferimento di una forma – il che certo non è possibile altrimenti che nel rapporto con Dio».
Dunque, un anno finisce e un anno comincia. «Questa notte di S. Silvestro – prosegue l’autore – per lo più si collega con l’allegria, con ogni genere di cose eccitanti, con voci alte e fuochi artificiali – quindi con un atteggiamento che fa tutt’altro che presentare alla coscienza quanto avviene». Certo, si gioisce per il fatto di «esserci ancora, poter entrare nel nuovo anno». Ma non c’è proprio null’altro? Per esempio, anche un pizzico di paura? «Le persone che nella confusione di Capodanno fanno il passo al di là di quel confine del tempo, hanno timore. Ma perché? Perché non vogliono guardare in faccia il finire reale. E nemmeno l’iniziare reale».
La conclusione a cui giunge Guardini mi consente oggi di vedere con più chiarezza ciò che, in maniera confusa e inconsapevole, abita coloro che festeggiano questa ricorrenza. Difatti, scrive, «un autentico finire esigerebbe […] qualche tipo di rendiconto, davanti alla coscienza, davanti a Dio. E un autentico iniziare significherebbe […] un apprestarsi alle prove, ai compiti e alle disposizioni della sorte che ci attende in futuro; uno stare all’erta per scorgere ciò che mostra la strada».