I Promessi sposi secondo Verdi
“Porta male”. Questa è la fama che accompagna l’opera di Verdi dove il destino avverso e funesto perseguita l’indio don Alvaro, l’innamorata Leonora attraverso il vendicativo fratello di lei, don Carlo e la maledizione paterna. In mezzo, folle di soldati, di pellegrini, un frate chiacchierone, un mulattiere, un Padre Guardiano santo e poi battaglie, inni di guerra con tanto di “rataplan”, cori religiosi semplici e sublimi (la Vergine degli angeli), duelli, sangue ed infine il terzetto finale “Non imprecare, umiliati” dove il frate invita Alvaro a lasciarsi redimere da Dio mentre Leonora muore. Una morte molto manzoniana in un lavoro corrusco, dove si fugge sempre tra folate di vento – tema ricorrente -, si piange e si prega e ci si diverte con quel mattacchione di frate Melitone e la zingara Preziosilla. Insomma, I promessi sposi secondo Verdi, ma in un racconto fortemente drammatico e a tratti pessimistico: amore e morte, onnipresenti nel maestro di Busseto.
Operona lunga, complessa, difficile da eseguire, interpretare e mettere in scena. Alla Scala la regia corretta di Leo Muscato ha indovinato una sorta di pedana circolare rotante che alternava efficacemente le scene, costumi di epoche variegate – anche i soldati tipo prima guerra mondiale -, e movimenti non eccessivi, in modo che la musica fluisse libera e i cantanti non si esaurissero, data la partitura vocalmente molto impegnativa.
Nella recita del 28 brillava il baritono Ludovic Tézier, grande vocalmente e attorialmente, voce possente e morbida, ricca di sfumature, dal brillante (“Son Pereda”) al cupo (“Invano, Alvaro, ti celasti al mondo”). Bello l’esordio nel ruolo da parte del tenore Luciano Ganci come Alvaro: voce espansa, che cerca sfumature, espressività in un personaggio sospeso tra nostalgia e ansia, tristezza e fede. Se la Preziosilla di Vasilisa Berzhanskkava ha brillato soprattutto come attrice, eccellente è stato il comico Fra Melitone di Marco Filippo Romano, mentre la Leonora della russa Elena Stikhina si è rivelata interprete lirica molto convincente e appassionata, capace di delicatezze timbriche e di soavità.
Riccardo Chailly ha guidato con cura, passione, impeto una orchestra in stato di grazia, fin dalla celebre sinfonia che, se ricorda alcune flessioni toscaniniane, evidenzia con stupore – anche lungo il corso dell’opera – la bellezza di altri interventi, come le prime parti di flauto, oboe e specialmente clarinetto. Senza dimenticare gli ottoni, forti e misurati, perché Chailly sa dosare ritmi asciutti a vaporosità degli archi (la scena di popolo, atto secondo), a pause liturgiche, scoppi drammatici, e la soavità lucente del finale. Meraviglioso il coro, che canta con il sentimento e dice tutto di un autentico altro personaggio dell’opera. La quale corre di un fiato nella versione offerta per la prima scaligera del 1869, che fu un trionfo. E lo è stato quest’anno per l’inaugurazione della stagione. E non ha “portato male”, anzi.