La scomparsa di Manmohan Singh
Manmohan Singh è stato il primo e tutt’ora unico non-indù a guidare l’India. Mahmohan Singh, infatti, scomparso in questi giorni alla veneranda età di novantadue anni, era sikh, originario del Punjab, lo stato più ricco, dal punto di vista agricolo, dell’Unione Indiana e anche quello che più si identifica con questa religione nata proprio in questa parte a nord ovest del sub-continente, oggi divisa fra Pakistan e India. Singh stesso era nato a Gah, una città che, dalla partizione nel 1947, fa parte del Pakistan.
Singh – cognome molto comune fra i sikh che significa “leone” – per vari decenni della sua vita, fin verso i cinquant’anni, si occupò dell’insegnamento di economia e finanze, dopo essersi laureato in India prima, e ad Oxford poi. Contemporaneamente entrò a far parte del Fondo Monetario Internazionale e assunse vari incarichi presso diversi uffici Onu. La sua entrata in politica, suo malgrado, in quanto non sembra lo avesse previsto, avvenne negli anni ’90, quando l’allora Primo Ministro Narasimah Rao del partito Congress (Indian National Congress), lo coinvolse nella formazione del suo gabinetto, affidandogli il Ministero delle Finanze. Si trattò di una scelta strategica determinante per il professore universitario, ma anche – e soprattutto – per l’India. Con un’attenta politica economica, fatta di piccoli passi ben calibrati ma decisamente innovatori per la politica economica del gigante indiano, che Jawaharlal Nehru, il primo Premier dopo l’Indipendenza, aveva impostato come una tipica economia di stato.
Una scelta importante quella del pandit Nehru, perché aveva permesso al Paese di costruire una sua industria autonoma a diversi livelli e di diventare capace di produrre internamente in quasi tutti i settori, senza dipendere, dopo due secoli di colonialismo, da potenze straniere che negli anni Cinquanta e Sessanta stavano trasformando il colonialismo in neo-colonialismo. Agli albori dell’ultimo decennio del millennio, Singh aveva, tuttavia, previsto che le cose stavano cambiano a livello globale.
L’impero sovietico, al quale l’India era stata vicina da sempre, pur avendo dato vita – con Indonesia e Yugoslavia – al gruppo dei Paesi non-Allineati, era appena crollato e la globalizzazione già in atto era ormai rampante. Con prudenza, ma anche con decisione, Singh seppe aprire il Paese a un’economia di mercato sempre attentamente monitorata dal governo, senza mai svendere il gigante indiano alle multinazionali. Alcune sue scelte furono, almeno inizialmente, impopolari, come nel caso della svalutazione della rupia, la valuta locale. Tuttavia, ben presto tutti si accorsero della chiarezza di idee e di scelte di cui il professore era stato capace.
Gli anni presso il Ministero delle Finanze affinarono la capacità e il fiuto politico dell’economista che, sempre più col passare del tempo, si è rivelato un abile politico con capacità di leadership insospettate e con rara abilità diplomatica e di tessitura di rapporti. Per questo la sua scelta come Primo Ministro, avvenuta dopo le elezioni del 2004, vinte dal Partito del Congress e della coalizione ad esso legata, pur suscitando una certa sorpresa si rivelò strategica e ben ponderata. Tra il 1996 e il 2004, infatti, il Paese era stato governato dal Bharathia Janata Party (lo stesso attualmente al potere con Narendra Modi) e da due Primi Ministri del Janata Dal, altro partito da sempre in opposizione al Congress.
Dopo la vittoria del 2004, Sonia Gandhi, nata Maino di origine italiana e moglie di Rajiv Gandhi assassinato nel 1991, in quel momento Segretaria del Congress, dopo aver assicurato che il suo partito avrebbe potuto governare con una maggioranza solida, sorprendendo molti, indicò proprio Manmohan Singh come candidato alla poltrona di Primo Ministro. «Con lui l’India è in buone mani» avrebbe detto la leader di un partito politico indiano che aveva da subito capito che non avrebbe mai potuto essere lei, italiana, il Primo Ministro di un Paese dove non era nata. E così è stato. Singh ha governato per dieci anni, fino al 2014, quando il Congress è stato spazzato via dal ciclone Modi, ancora oggi al potere.
Si dice che ci vollero tre giorni di prove per Singh prima di pronunciare il discorso programmatico del suo governo. Il Primo Ministro sikh non era un comunicatore e rivelava una timidezza mai celata, ma capace di permettergli di restare nel pieno controllo della situazione anche nei meandri più complessi della politica indiana. Un autorevole analista di politica interna, in questi giorni, ricordando Manmohan Singh come politico, ha affermato che l’economista-statista si è davvero rivelato tale come dimostrano i dieci anni al potere senza mai commettere errori gravi o rompere rapporti politici importanti e delicati all’interno come all’estero.
Se dopo un decennio, il Congress è poi crollato, e ancora stenta a riprendersi, tutti concordano che la responsabilità non è certamente da attribuire a questo uomo minuto e dai modi gentili. Sono stati i centri di potere, da anni nelle sale dei bottoni in vari stati dell’India e nella capitale, a decretarne in crollo, a causa della corruzione e dell’attaccamento a varie “poltrone”. Singh è sempre stato riconosciuto come persona onesta e pulita, senza mai offrire il fianco alle critiche, comuni per politici al potere da tempo. Ed ha dimostrato grande pazienza nel rapportarsi con politici ben più collaudati di lui e con la stessa Sonia Gandhi, la vera eminenza grigia del Congress. È stato un accademico e statista apprezzato e riconosciuto da tutti.