Le sfide che deve affrontare la nuova Siria

Si è avviata la mission impossible del nascituro nuovo governo siriano per tenere insieme il Paese e gestire le rivendicazioni di vari pretendenti internazionali. Fino ad ora la prudenza mostrata dai ribelli vincitori sembra smentire l’intransigenza ideologica che viene loro attribuita.
Una veduta aerea scattata con un drone mostra sacchi per cadaveri ammucchiati su un camion nel luogo in cui sono stati scoperti resti umani nel distretto Sayyida Zeinab di Damasco, in Siria, il 18 dicembre 2024. Secondo i Caschi Bianchi, sono stati rinvenuti circa 20 corpi e 10 sacchi contenenti ossa umane. Foto Ansa, EPA/MOHAMMED AL RIFAI EPA/MOHAMMED AL RIFAI

A poche ore dalla caduta del regime di Bashar al Assad, la settimana scorsa, molte tensioni da anni più o meno latenti in Siria sono immediatamente riesplose. Emblematici gli attacchi e i bombardamenti in alcune aree calde del Paese: la Turchia ha colpito (direttamente o tramite la milizia filoturca Fsa) a nord di Aleppo e nei territori curdi del Rojava a nordest; gli Usa (da anni presenti nell’est curdo e in un’area a sud, al confine con la Giordania) hanno colpito zone interne occupate da residui dello Stato Islamico a scopo di deterrenza; Israele ha attaccato pesantemente da sud, occupando le aree del Golan a ridosso del confine del 1967, distruggendo la flotta e bombardando in tutta la Siria centinaia di depositi di armi del regime, con la scusa di evitare che cadessero nelle mani dei ribelli vincitori. Per quanto riguarda i russi, nei giorni precedenti il crollo del regime hanno effettuato alcuni bombardamenti aerei su Idlib e Aleppo, poi, dopo la fuga di Assad a Mosca il 7 dicembre scorso, si sono ritirati dai presidi che occupavano all’interno del Paese per concentrarsi nelle due basi che dal 2015 hanno in concessione sulla costa: quella navale a Tartus e quella aerea a Khmeimim, nei pressi di Latakia. Il leader dei ribelli vincitori, al Jolani, ha recentemente commentato: “Avremmo potuto colpire anche le basi russe in Siria, ma abbiamo preferito costruire buoni rapporti”.

Intensi i contatti diplomatici di Usa, Turchia e Qatar, Russia, Onu, Unione europea, Regno Unito, ecc. con il neo premier ad interim Muhammad al-Bashir e con la leadership rappresentata da Hayat Tahrir al Sham (Hts) e dal suo capo, Ahmed al-Sharaa, più conosciuto come Abu Mohammed al Jolani (soprannome che indica l’origine della famiglia, nella regione del Golan). In questi contatti e nelle decisioni prese dopo l’arrivo a Damasco, al Jolani si sta rivelando un abile negoziatore. Si è mosso, pur fra mille difficoltà, senza concedere spazio a violenze e vendette, a quanto risulta. Ha dosato abilmente i messaggi per rassicurare le minoranze religiose (cristiani, alawiti) ed etniche (curdi), ovviamente preoccupate per l’identità islamista dei vincitori.

In una decina di giorni o poco più, il processo di normalizzazione ha già fatto passi avanti: tra l’altro con la riapertura di scuole e università, l’annuncio di un futuro smantellamento dei gruppi armati e la promessa di indire nuove elezioni. E la convocazione della prima grande preghiera islamica senza armati in un luogo-simbolo di Damasco e dell’intero Islam: l’antica moschea omayyade del califfo al Walid I, risalente alla fine I secolo dell’Egira (715 d.C.).

Perfino la Turchia, che in un primo momento sembrava voler riprendere la guerra contro i curdi del Rojava, ha promesso aiuti militari alla nuova Siria. Il sospetto è che l’intenzione dei donatori sia quella di invitare il nuovo governo siriano a tenere a bada i curdi, l’ossessione di Erdogan dentro e fuori la Turchia. Al Jolani ha risposto indirettamente, ma con fermezza affermando che: “I curdi fanno parte della patria e, come noi, sono stati oppressi dal precedente regime. Con la caduta del regime, questa oppressione sarà eliminata… Se Allah vuole, i curdi saranno parte integrante dello Stato. Tutti riceveranno i loro diritti secondo la legge”.

E ai curdi penso che convenga trattare con la Siria piuttosto che combattere contro la Turchia. Tanto più se, come pare molto probabile, Trump pianterà in asso i curdi ritirando le truppe americane, lasciandoli in pasto ad Erdogan. Cosa che peraltro lo stesso presidente neo-eletto degli Usa aveva già fatto nel 2019, dopo che le milizie curdo-arabe Sdf, con l’appoggio Usa, avevano sconfitto sul terreno lo Stato Islamico.

L’altra grande questione aperta per la Siria del dopo Assad si chiama Israele. Questione aperta e difficile, con Netanyahu che come al solito non sente ragioni. Il governo israeliano sembra convinto che il nuovo equilibrio del Medio Oriente passi per una sostituzione del tentativo egemonico iraniano, ormai fallito, con una sorta di sorveglianza armata israeliana su una Siria smilitarizzata.

Al Jolani ha comunque preso una posizione netta: “Non entriamo in conflitto con Israele. Le scuse di Israele per entrare in Siria non esistono più. Non ci sono scuse per qualsiasi intervento esterno in Siria dopo la partenza degli iraniani”.

In sintesi, la mission impossible del nascituro nuovo governo siriano sembra avviata. Che non sia facile, nessuno ne dubita. Il rischio comprende, oltre ad un improbabile ritorno di Assad, la possibilità che al Jolani e Hts non riescano a controllare la coalizione che ha scalzato il regime, e che si apra quindi uno spazio al jihadismo. Non è escluso neppure – e questa è la tesi più battuta da molti osservatori occidentali – che lo stesso al Jolani e Hts si rivelino ben presto come dei simulatori in stile talebano. Per adesso pare che la “prudenza” mostrata dai ribelli vincitori abbia la meglio sull’intransigenza ideologica che viene loro attribuita, spesso nel nome di altre ideologie altrettanto intransigenti.

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