La vita di Agostino dopo le “Confessioni”
L’odierna cittadina di Annaba, in Algeria, sotto l’impero romano apparteneva alla Numidia proconsolare col nome di Hippo Regius. Fiorente porto commerciale, ne restano cospicue vestigia: il foro con i suoi portici colonnati, il teatro, il mercato, le terme severiane, le cisterne… Era l’Ippona di Aurelio Agostino, che dal 396 fino alla morte nel 430 ne fu vescovo.
All’epoca la popolazione era composta da armatori e commercianti, da famiglie agiate stanziate in ville lussuose, ma soprattutto da pescatori e marinai, soldati e contadini, artigiani e funzionari, asceti e monaci, pagani e giudei. Ai cristiani cattolici si mescolavano poi i seguaci di varie sette ereticali, vera spina nel cuore di Agostino. La divisione era tanto più evidente in quanto la basilica dove egli celebrava i santi misteri e quella donatista erano molto vicine, sicché al momento delle liturgie i canti e i clamori provenienti da entrambe cercavano di sovrastarsi. Non era certo facile per il grande dottore della Chiesa governare la barca del suo popolo in mezzo a tali frangenti!
Oggi della basilica pacis di Agostino rimangono soltanto dei ruderi; ma è perfettamente riconoscibile la pianta in tre navate con l’annesso battistero. Particolare emozione desta, nel presbiterio, il vuoto occupato un tempo dalla sua cattedra episcopale. Un vuoto però che ne evoca potentemente la presenza, quando col fascino della sua parola spiegava ai fedeli le Sacre Scritture.
Tornano in mente le battute finali della preghiera con cui, rientrato in Africa da nove anni e intento alla stesura di opere impegnative, egli conclude le sue Confessioni, questa sublime testimonianza sulle vie e gli sviluppi attraverso i quali Dio guida un’anima verso la verità:
Possono alcune opere nostre essere buone, certamente per tuo dono, ma non eterne; eppure dopo di esse speriamo di riposare nella tua grandiosa santità. Tu però, Bene mancante di nessun bene, riposi eternamente, poiché tu stesso sei il tuo riposo. La comprensione di questa verità quale uomo potrà darla a un uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo? Chiediamo a te, cerchiamo in te, bussiamo da te. Così, così otterremo, così troveremo, così ci sarà aperto.
E poi? Cosa è accaduto dopo? Siamo alla fine del V secolo e Agostino ha tra i quarantatré e i quarantasei anni. Gliene restano altri quaranta circa, densi di eventi anche drammatici, di aspre lotte contro donatisti, pelagiani e manichei; anni di prodigiosa fecondità letteraria, che oggi noi conosciamo – sia pure a grandi linee – grazie ad un contemporaneo del vescovo di Ippona, un suo discepolo, amico intimo e poi collega nell’episcopato, che lungo tutto quest’arco di tempo lo frequentò venerandolo come padre e maestro: Possidio, vescovo di Calama.
La sua Vita di sant’Agostino – oggi compresa nella monumentale Opera omnia del grande convertito pubblicata dall’Editrice Città Nuova – è un documento prezioso che ci ragguaglia sulla giornata di Agostino nel monastero da lui fondato ad Ippona prima della nomina episcopale; sull’ascendente che egli godeva in un vasto raggio, al punto che varie Chiese si rivolgevano a lui per chiedergli un vescovo (ciò che accadde allo stesso Possidio); sulle dispute e i pubblici contraddittori con i vescovi eretici; sulla sua partecipazione ai concili panafricani e i rapporti con la sede apostolica di Roma; sulle invasioni di Vandali, Alani e Goti in cerca di nuovi territori dove poter vivere: popolazioni barbariche cristiane ma di fede ariana, che misero a ferro e fuoco le tre Mauretanie e parte della Numidia; fino agli ultimi suoi giorni di vita in una Ippona sotto assedio, dove anche Possidio e altri vescovi dei dintorni si erano rifugiati, consapevoli che finiva un mondo, senza ancora vederne sorgere un altro.
Quel sant’uomo – scrive fra l’altro il vescovo di Calama – ebbe in dono da Dio una lunga vita per l’utilità e la felicità della santa Chiesa, essendo vissuto settantasei anni, di cui una quarantina da chierico e da vescovo. Nelle familiari conversazioni con noi soleva dire che, dopo aver ricevuto il battesimo, anche i cristiani e i vescovi esemplari non debbono uscire dal corpo senza una degna e adeguata penitenza. Così egli fece nell’ultima malattia di cui poi morì: si fece scrivere quei salmi davidici (che sono pochissimi) che hanno per argomento la penitenza, e durante la sua malattia dal letto in cui giaceva guardava quei fogli posti sulla parete dirimpetto, leggeva e piangeva continuamente a calde lacrime. […]
Fino all’ultima malattia predicò in chiesa la parola di Dio con assiduità, con zelo, con coraggio, con chiarezza e vigore di intelligenza. Senza lesione in alcun membro del corpo, conservando integra la vista e l’udito, alla nostra presenza, sotto i nostri occhi, mentre noi pregavamo, s’addormentò, com’è scritto, coi suoi padri, in prospera vecchiaia. […] Lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri d’uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l’obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche contenenti scritti e discorsi suoi e di altri santi, da cui si conosce quale sia stato per grazia di Dio il suo merito e la sua grandezza, e nei quali i fedeli sempre lo ritrovano vivo.
Il più grande, forse, tra i Padri della Chiesa morì il 28 agosto del 430. Circa un anno più tardi, nel luglio del 431, Ippona, pressoché abbandonata dalla popolazione, venne presa, saccheggiata e parzialmente data alle fiamme. Rimase tuttavia intatta la biblioteca di Agostino col suo tesoro di libri nei quali – cito ancora Possidio – i fedeli sempre lo ritrovano vivo.
Quanto alle venerate spoglie, ci sarebbe da scrivere un libro solo per narrarne le romanzesche peripezie. Traslate in Sardegna per sottrarle a profanazione, nel 725 furono dal re longobardo Liutprando acquistate a caro prezzo dai saraceni, trasferite quindi a Pavia nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, e finalmente composte in un’Arca marmorea di proporzioni grandiose, degna del personaggio.
Perché nessuno disturbasse il suo raccoglimento – si legge sempre in Possidio –, circa dieci giorni prima di morire, disse a noi, che lo assistevamo, di non far entrare nessuno, se non nelle ore in cui i medici entravano a visitarlo o gli si portava da mangiare. La sua disposizione fu osservata, ed egli in tutto quel tempo stette in preghiera.
Proprio così sembra di vederlo nell’Arca in cui ora riposa, scolpito sul sarcofago in candido marmo di Carrara: in attesa di entrare nella Vita, gli occhi socchiusi e con in mano la Bibbia.