Guerre, polarizzazioni e demonizzazioni
Lo spettacolo della guerra è uno dei più attraenti che esistano. Più sangue c’è, più paura viene scatenata, più si sollecita l’emotività più che la razionalità, più l’attenzione degli utenti viene attirata (e poi deviata verso fini bassamente commerciali). Da sempre, i meccanismi che scatenano le guerre sono simili: una normale diversità di vedute, se non contenuta dalla legge e dalla diplomazia, porta poco alla volta a trasformare l’avversario in nemico. Nemico da combattere a tutti i costi per ottenere una vittoria che si annuncia schiacciante, anche se con ogni probabilità la guerra non finirà tanto presto, e se la vittoria sfuggirà a entrambe i contendenti. Perché la stupidità della guerra istupidisce chi la fa, impedendogli di capire che alla fine tutti perderanno. L’equazione delle guerre non ha mai un saldo positivo.
La vicenda del Donbass è la cartina al tornasole, l’ultima, della stupidità della guerra. «A meno che non si mettano sulla bilancia i benefici delle imprese che producono armamenti e lo sviluppo delle ricerche tecnologiche», pensano in tanti, visto che il settore trascina l’economia, apparentemente. Se la mettiamo solo sul piano finanziario potrebbe anche essere. Ma ormai è chiaro che i bilanci non si fanno solo con le unità di misura del dollaro o dell’euro o dello yuan isolatamente dagli altri indici della salute di un Paese.
La rivoluzione digitale, di cui l’intelligenza artificiale è solo una parte, ha creato dei prodotti e dei meccanismi che accentuano la differenza delle posizioni politiche, arrivando spesso e volentieri a polarizzare talmente i punti di vista da renderli antitetici, inconciliabili, ragione di vita o di morte. Il passo è breve per passare dalla polarizzazione alla demonizzazione, cioè all’identificazione dell’avversario-nemico con il male, anzi con il Male. La guerra non resta più una lotta per conquistare un fazzoletto di territorio (o un lenzuolo), o per conquistare sì l’accesso al mare, o ancora per fermare una potenziale invasione, ma un modo per ridare senso alla propria esistenza di popolo. La guerra crea, o piuttosto vorrebbe creare identità.
Il Medio Oriente oggi ci presenta numerosi casi di studio per studiare questi meccanismi. Prendiamo il caso siriano, che in questi giorni torna in rilievo. La propaganda occidentale ci ha fatto credere (non tutti a dire il vero ci sono cascati) che Assad era il Male Assoluto, e che i suoi oppositori erano la Democrazia, la Giustizia, la Libertà. Era inutile cercare di spiegare che, pur ammettendo il carattere dittatoriale del regime siriano, pur riconoscendo i crimini commessi dai servizi al soldo del regime ba’thista, pur condividendo il pensiero di chi auspicava un’altra forma di governo per la Siria, venivi tacciato di venduto al nemico, di traditore della causa della verità e della libertà.
Avevamo dimenticato e dimentichiamo ancora cosa abbia significato abbattere regimi come quelli di Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi? La catena di morti e lutti non si sono interrotte con la caduta del dittatore di turno, tutt’altro, instaurando un’insicurezza profonda nei territori coinvolti, che durano ancora a decenni dagli eventi. Ora, in Siria la tanto agognata “liberazione” di Aleppo rischia di rivelarsi una vittoria di Pirro, perché avvenuta a opera di milizie legate in qualche modo alla Turchia, milizie che fanno tanto pensare a una riedizione del Daesh: i pickup che si vedono in giro per Aleppo forse sono quelli stessi che al-Baghdadi muoveva nel 2014 per occupare il deserto tra Iraq e Siria dopo la fine del regime di Saddam Hussein. E ancora, possibile che le minoranze cristiane e musulmane in Siria avessero completamente torto nel sostenere Assad e applaudissero, nemmeno tanto di nascosto, all’arrivo delle truppe di Mosca, a liberare Aleppo nel settembre 2015?
Il fatto è che le demonizzazioni portano prima o poi al peggio, anche per la distruzione di ogni canale di comunicazione tra fazioni, partiti, Stati o popoli. La verità non sta mai tutta da una parte, soprattutto se quella verità è frutto di una demonizzazione che ottunde l’intelligenza e dà la stura ai sentimenti più bassi presenti in una fazione, in un partito, in un popolo, in uno Stato.
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