Capire Trieste con la Pacem in terris

Una lettura del nostro tempo che mette in evidenza l’urgenza di prendere sul serio e attuare al messaggio dell’enciclica di papa Giovanni XXIII. A partite dallo strategico porto della città giuliana. Estratto dall'intervento fatto il 19 novembre 2024 in occasione della tappa dell'iniziativa nazionale "Fari di pace"
Trieste. Immagine Wikipedia disponibile in base alla licenza Creative Commons

Davanti all’urgenza dell’impegno per la pace sembra prevale un senso di rassegnazione e passività, come di fronte a un corso necessitato degli avvenimenti, dove nulla si può fare per cambiare rotta; un “fato” che tutto fa dipendere da forze superiori – indipendentemente quanto superiori siano – tanto da sentirsi impotenti, perché un eventuale cambiamento potrà avvenire esclusivamente dall’intervento di attori in gioco che hanno ruolo di primo piano, che gestiscono il potere, che hanno gli strumenti per poter cambiare la storia.

E così, per quanto ci si possa illudere che sia una via per trovare pace, ci si chiude sempre più nell’interesse privato, nel particolarismo, in un individualismo esasperato incapaci di occuparci della cosa pubblica, del bene comune, della “polis”. L’enorme fetta della popolazione che non si reca più a votare ne è inequivocabile segno.

Eppure – al netto degli atti di violenza che contraddicono scelte di fondo e che sono sempre condannabili – i movimenti giovanili impegnati in tanti ambiti e con diverse modalità, che in questi anni si stanno mobilitando per la giustizia, la pace, la libertà, la difesa della casa comune, mettendoci la faccia, stanno indicando il bisogno di fare un passo in più, di abbandonare l’apatia e l’indifferenza, a maggior ragione la rassegnazione, sentendoci responsabili nel costruire attraverso scelte quotidiane e “politiche” un mondo capace di pensarsi in pace.

Perché pace non è solo assenza di conflitti, lo shalom nella radice ebraica dice pienezza di vita e di senso, insieme di relazioni positive tra gli individui e tra le comunità, capaci di raggiungere la dimensione intima di ogni persona.

In qualche modo tutto questo ce l’ha ricordato Giovanni XXIII, papa buono, ma non certo ingenuo. L’enciclica “Pacem in Terris” è stata pubblicata nel 1963, rivolta non solamente al popolo dei credenti, ma a uomini e donne di buona volontà che non si sentissero divisi su valori fondamentali come la giustizia sociale e la libertà, il rispetto della dignità di ogni persona, soprattutto la pace, «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (n. 1). Una pace che non può non trovare valori condivisi se non nel rispetto dei diritti dell’uomo, a partire dalla, in più punti citata, Dichiarazione universale dell’ONU del 1948.

L’enciclica cadeva in una nuova fase delle relazioni internazionali dominata dalla minaccia nucleare. È stata pubblicata dopo un lungo periodo di guerra fredda, durante il quale le due superpotenze – USA e Unione Sovietica – accumulano un arsenale nucleare sufficiente a distruggere città intere.

Da poco si erano verificate due gravi crisi: nel 1961 l’erezione del muro di Berlino, nel 1962 quella di Cuba, quando l’installazione di missili sovietici aveva portato il mondo a un passo da un conflitto nucleare.

Il concetto stesso di guerra cambia radicalmente: qualsiasi conflitto diventa troppo pericoloso se comporta l’impiego di armi atomiche. La loro presenza presso la base Usaf di Aviano, a pochi chilometri da Trieste, ce ne fa continua memoria.

Inoltre l’interdipendenza tra i Paesi – ce l’ha ricordato la recente pandemia – non può lasciare nessuno tanto tranquillo. Insomma, il momento attuale assomiglia in modo inquietante al periodo immediatamente precedente alla “Pacem in Terris”.

Sembra, infatti, che le armi siano l’unica strada per risolvere i conflitti e che siano la nonviolenza e il dialogo a dover trovare giustificazione, perché ritenute da chiunque abbia un barlume di ragione vie ingenue e buoniste impossibili da praticare.

In questa ottica l’unico modo per sentirsi sicuri sia la corsa agli armamenti in quell’«equilibrio delle forze» (n. 59), che non permetta di perdere il passo degli altri Stati; a dare una falsa, maggior sicurezza contribuiscono l’intelligenza artificiale e l’aumento delle tecnologie belliche con lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma automatizzati.

Questa rappresentazione delle realtà fa crescere in maniera esponenziale il traffico di armi in linea con la richiesta della NATO di investire nella spesa militare fino al 2% del Pil nazionale, quando essa ha già superato in Italia – sono i dati del 2024 – i 29 miliardi di euro, una cifra che nel 2025 si attesterebbe sui 32 miliardi di euro, record storico con un aumento del 12,4% rispetto al 2024 e del 60% sul decennio.

Soldi che potrebbero trovare altri investimenti nel sociale e, invece, «gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi a ogni istante con una travolgenza inimmaginabile». A maggior ragione oggi vale l’invito di papa Roncalli ad arrestare la corsa agli armamenti: «giustizia, saggezza e umanità lo domandano» (n. 60).

Quell’enciclica, vero testamento all’umanità, afferma con evidenza e profezia che le relazioni tra gli Stati, come tra gli individui, devono essere regolate non dalla forza armata, ma secondo i principi della «retta ragione» (n. 61), «nella luce della ragione, cioè nella verità, nella giustizia e nella solidarietà operante» (n. 62).

Perché, come ricordava Pio XII nel 1939 alla vigilia della seconda Guerra Mondiale, «Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra» (n. 62).

La Chiesa si appresta a vivere un Giubileo che vuol mettere al cuore la «speranza che non delude», quella che il credente riconosce essere dono di Dio e che si fa concretezza attraverso scelte quotidiane che superano un evento meramente celebrativo, andando a toccare i motivi storici che ne hanno dato le origini, che sono quelli legati alla giustizia.

Per questo siamo invitati a usare la «retta ragione», cominciando dal non girarci dall’altra parte come se le guerre – una vera e propria “terza guerra mondiale a pezzi”, come la definisce papa Francesco pensando ai più di 50 conflitti che si stanno consumando nel mondo – non ci riguardassero.

Chi vive in mare è consapevole dell’importanza del faro, che permette di trovare un porto sicuro.

Le associazioni e realtà laicali ed ecclesiali tra le più diverse devono fare la loro parte perché l’umanità intera, anche alla luce della sofferta esperienza che viene da queste terre di frontiera, possa trovare un porto sicuro in una pace che sia frutto di «intese leali, durature e feconde» (n. 63). Perché non ci può essere speranza se non ci prendiamo la responsabilità di fare la nostra parte.

In linea con quella «speranza che non delude» e con i principi della «retta ragione», desideriamo che, come il “Faro della Vittoria” veglia da anni sul capoluogo giuliano, dal 19 novembre 2024 si accenda tra Trieste e Monfalcone anche il “Faro della Pace” che vegli su coerenza e trasparenza, sicurezza e legalità, nel rispetto delle leggi che vietano il caricamento e il transito di navi che portano armamenti. Armamenti che poi sono impiegati in conflitti, che a loro volta violano gravemente i diritti umani.

Vorremmo che ci sentissimo tutti incoraggiati alla cultura della nonviolenza attiva e a osare la pace per il bene di tutti.

Per questo concludo dedicando a chiunque, da privato cittadino o nel ruolo anche istituzionale o ecclesiale che ricopre, senta la necessità di essere artigiano di pace, questa esortazione che ci incoraggi a fare scelte lungimiranti e profetiche foriere di futuro, costruttori di quella «speranza che non delude». Ne ho bisogno io, spero ne troviate beneficio anche voi.

 

ALZATI IN PIEDI – ESORTAZIONE AL POPOLO DELLA PACE

― Alzati in piedi, popolo della Memoria,

tu, che non dimentichi il dolore

provocato da violenze e ingiustizie,

tu, che non resti indifferente

al continuo scontro di civiltà

e all’immane tragedia delle vittime:

scendi in piazza e agisci per trasformare la Storia,

affinché si disimpari l’arte della guerra

e nessuno più vìoli la sacralità della vita umana.

 

― Alzati in piedi, popolo della Giustizia,

tu, che sai che ogni guerra è frutto d’ingiustizia,

tu, che vedi continuamente volti dissolti,

negati nella loro dignità, nell’integrità fisica,

nella libertà personale, civile e religiosa:

non girarti dall’altra parte,

arrischia la solidarietà e spenditi per i loro diritti:

sarà seme di speranza per un domani degno per tutti.

 

― Alzati in piedi, popolo della Pace,

tu, che indossi nel quotidiano

l’abito della nonviolenza attiva,

tu che credi nella fecondità del dialogo:

sii nel tuo oggi artigiano di Pace,

educa le nuove generazioni alla cultura dell’incontro,

chiedi e favorisci percorsi di negoziato

che pongano fine alle contese,

invoca ed esigi una sicurezza condivisa,

che metta al sicuro la Pace anche per il futuro.

― Alzati in piedi, popolo del Disarmo,

tu, che ripudi ogni guerra,

tu che obietti all’uso delle armi

e non sopporti che transitino nei nostri porti,

tu che brami che le spade diventino aratri

al fine di condividere con altri popoli i frutti della terra:

opera perché si fermi l’escalation militare,

fa’ le tue scelte perché emerga una politica più umana,

capace anche di destinare i fondi agli armamenti

allo sviluppo, alla salute, alla nutrizione.

E, anche quando ti mancherà il fiato,

non stancarti di gridare:

«Tacciano le armi e parli la pace!».

Testo esratto dall’interveto fatto il 19 novembre 2024 Il 19 novembre a Trieste in occasione dell’iniziativa “Fari di Pace”, promossa da Pax Christi insieme alla Commissione CEI Problemi sociali e del Lavoro, Caritas Italiana, Azione Cattolica Italiana, Focolari Italia, e Agesci e, per questa edizione, insieme alle medesime realtà locali, altre legate sempre al territorio: la Diocesi di Trieste, Acli, Uciim, Accri, Sant’Egidio, Articolo 21 e Centro “Balducci”.

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