Quale futuro per il M5Stelle? Il parere di Stefano Fassina
Il Movimento 5 Stelle, che i sondaggi recenti danno al 10% dei consensi, sembra che si trovi davanti al bivio tra la sua dissoluzione, come sperano alcuni, o l’evoluzione in qualcosa di nuovo dopo la decisione dell’assemblea generale del 23 e 24 novembre 2024 di liberarsi dall’ipoteca del suo storico fondatore Beppe Grillo.
L’attore comico che, a partire dal suo blog, assieme all’imprenditore Gianroberto Casaleggio è riuscito ad aggregare, in pochi anni, a partire cioè dal 2009, un notevole consenso su una linea che rifiutava ogni definizione di destra e sinistra, diventando nel 2018 il primo partito politico italiano. Con il 32% raccolto nelle elezioni politiche la numerosa pattuglia di parlamentari del “Movimento” ha dato vita, con un inedito patto con la Lega di formare, il primo governo Conte.
Un vero terremoto istituzionale che Stefano Fassina ha vissuto ormai lontano dal Pd, dove ha ricoperto l’importante ruolo di responsabile Economia e Lavoro e poi, nel 2013-2014, l’incarico di viceministro all’economia nel Governo Letta.
Fassina è un’economista, con studi alla Bocconi e master negli Usa, che proviene dalla storia del Partito comunista confluito nel Partito democratico. Decisivo è stato il suo scontro con linea di quel partito al tempo di Matteo Renzi, fino alla scelta di aderire al gruppo della Sinistra Italiana per poi essere eletto alla Camera con la lista di Liberi e Uguali nel 2018.
Nel 2022 non si è ricandidato ma ha dato indicazioni di voto a favore del M5S guidato da Giuseppe Conte e, nell’ottobre di quell’anno, ha promosso con altri la rete “Coordinamento 2050. Civico, Ecologista e di Sinistra” che ha evidentemente un obiettivo politico di lungo termine di ricomposizione di un’area politica alla quale dedica le sue energie di studioso con l’attività culturale dell’associazione “Patria e Costituzione” che ha fondato nel 2018.
A Stefano Fassina abbiamo chiesto un parere sul futuro dei 5 Stelle che è anche aperto ad eventuali scissioni annunciate dopo le proteste di Grillo che ha chiesto per il 5 dicembre di ripetere il voto dell’assemblea di fine novembre.
Quali sono state le sue riserve iniziali verso il M5S?
Le mie riserve, anzi la mia radicale estraneità all’impianto originario del M5S non erano tanto dovute al “né di destra, né di sinistra”. Era un posizionamento comprensibile per chi entrava in un quadro politico dove la sinistra storica, la sinistra ufficiale, si era già allontanata dai suoi primari riferimenti sociali. La mia distanza, innanzitutto culturale, verso il M5S si determinava in reazione alla sua divisione della politica e della comunità sociale in “sistema e anti-sistema”, al disconoscimento del valore costituzionale della democrazia delegata, alla negazione delle competenze specifiche richieste all’attività Politica. Insomma, alla sua “sovrastruttura” martellata dalla efficace comunicazione nelle piazze e sui social media da Beppe Grillo.
Dalla quale siete rimasti spiazzati…
Evidentemente quella sovrastruttura, estranea a me e alla tradizione politica della sinistra, era tuttavia condizione necessaria, sinergica, per far funzionare la geniale organizzazione on-line inventata da Gianroberto Casaleggio. Geniale, ma one-shot: cioè poteva funzionare soltanto per la fase dell’opposizione. Al governo di una società complessa e di un’economia matura prigioniera del “vincolo esterno” (di bilancio imposto dalle regole europee, ndr), non poteva reggere. Non ha retto, nonostante allo scranno più alto di Palazzo Chigi fosse arrivato non Luigi Di Maio o Alessandro Di Battista, ma Giuseppe Conte, una personalità al debutto nel gioco politico, ma con un curriculum di primordine, certo non collocabile nel versante “anti-sistema”.
E, quindi, per quale ragione ha colto, nel tempo, dei tratti interessanti in questa realtà così anomala?
Sin dalla prima apparizione elettorale del M5S, alla distanza verso la sua “sovrastruttura”, associavo però, l’estremo interesse, anzi l’attrazione, per la sua “struttura”, ossia per le classi sociali che rappresentava e, seppur in misura ridotta rispetto agli esordi, continua a rappresentare: disoccupati, precari, operai, lavoro autonomo povero e anarcoide dei servizi a scarso valore aggiunto, giovani professionisti sfruttati, micro-imprenditori senza potere di mercato. Insomma, lì, nei riferimenti elettorali del M5S, ritrovavo il popolo delle periferie sociali abbandonato da tempo dalla sinistra storica, dalla mia parte, dal partito nel quale avevo militato negli ultimi anni. Il passaggio al governo ha segnato la svolta per il M5S. A partire dall’esperienza vissuta alla Camera dei Deputati come parlamentare a sostegno del Governo Conte II, ho verificato direttamente l’evoluzione del Movimento. La scelta compiuta a “Nova”, il percorso costituente concluso a Roma il 23-24 Novembre scorso (al netto della ripetizione del voto imposta dal “garante” in base all’assurdo statuto del Movimento), ha archiviato l’inservibile sovrastruttura delle origini.
Cosa è emerso in questa recente assemblea generale?
Il consenso ricevuto nel voto degli iscritti dall’opzione “progressisti” e dall’opzione “di sinistra” da visibilità a ciò che il M5S è da tempo. L’auto collocazione progressista non è un’improvvisazione tattica. È frutto di un’evoluzione pluriennale non tanto teorica quanto pratica, nel confronto-scontro con gli interessi materiali in conflitto. La necessità di scegliere tra interessi di classe in conflitto ha imposto una chiara collocazione di campo, nonostante la narrata equidistanza politologica da destra e sinistra. Ancor più significativo che la maggioranza relativa M5S si sia pronunciata per definirsi come “progressisti indipendenti, sul presupposto che, in opposizione alle forze di destra, esiste un ampio spazio politico, progressista, legittimamente occupato dal Movimento, forza autenticamente democratica e pacifista, non riducibile solo alle più tradizionali forze di sinistra”.
Ma che identità ha oggi questo partito? Ad esempio, aderisce nel Parlamento europeo al gruppo della Sinistra ma sui migranti ha posizioni vicine alla destra. Sostiene vertenze ambientali ma è lontano dai Verdi che poi in Europa hanno posizioni sulla guerra e gli armamenti conformi ai conservatori. Sembra che ci sia affinità con la tedesca Sahra Wagenknecht, definita spesso in Italia in maniera negativa come rosso-bruna. Quale è il suo punto di vista?
A me pare che il bivio l’abbia superato, almeno nelle scelte politiche compiute. L’identità in via di definizione è espressa dall’aggettivo “indipendenti” legato al sostantivo “progressisti”. L’indipendenza culturale prima che politica dalla sinistra che c’è, è marcatore identitario. Lo conferma la presenza alla due giorni di Roma, quale unica voce politica esterna, di Sahra Wagenknecht, guida del partito BSW appena entrato nell’agone elettorale in Germania. BSW, esorcizzato come ‘rossobruno’ o ‘sovranista di sinistra’ dalle nostre penne più illuminate, ha profondi caratteri di originalità.
In cosa consiste tale originalità?
Sul versante internazionale, BSW è per il negoziato con la Russia e denuncia, come gli altri partiti della Sinistra europea, la maggioranza Ursula per la trasformazione dell’Ue in dipartimento della NATO. Ma, a partire da qui, BSW si differenzia dalla ‘famiglia’. Archivia la favola sugli “Stati Uniti d’Europa, riconosciuta giustamente come copertura della struttura neoliberista dei Trattati e dello sleale mercato unico europeo. Conseguentemente, vede la comunità nazionale come incancellabile dimensione dei popoli e della partecipazione democratica. Quindi, propone l’integrazione europea come cooperazione tra democrazie nazionali autonome.
E sul tema delle migrazioni?
Prospetta la regolazione realistica dei flussi migratori, ossia politiche per limitarli in stretta connessione alla effettiva capacità di integrazione, e l’impegno alla cooperazione internazionale per promuovere il diritto a non emigrare. Non è una posizione di destra. È la posizione necessaria per difendere gli interessi dei suoi primari riferimenti sociali: lavoratori subordinati e classe media spiaggiata. Le politiche no borders sui migranti, come sui movimenti di capitali, merci e servizi, colpiscono le fasce sociali in difficoltà. Fu Bernie Sanders, durante una campagna elettorale per le “primarie” per la Casa Bianca, ad affermare: “le politiche no borders sono politiche liberiste”.
Un cambiamento notevole di prospettiva..
La sinistra per sostenere davvero le persone costrette ad emigrare per sopravvivere dignitosamente deve riaprire il libro del perdurante sfruttamento coloniale dell’Africa e di altre porzioni di continenti. È per me immorale, da un lato, rassegnarsi allo sfruttamento coloniale e, dall’altro, motivare in chiave egoistica l’accoglienza dei migranti, ossia sostenerla in ragione del nostro declino demografico e delle nostre necessità di manodopera.
E per quanto riguarda le questioni ambientali?
Anche a proposito della conversione ecologica vale la difesa degli interessi di classe: BSW raccomanda di subordinare l’attuazione delle politiche green alla effettiva attivazione delle compensazioni necessarie a renderle sostenibili alle fasce sociali in difficoltà e alla sopravvivenza dell’industria manifatturiera. Infine, aspetto poco osservato, BSW dedica attenzione alla tradizione quale fonte spirituale dell’umano e rigetta la declinazione consumista dei diritti civili: dalla maternità surrogata, alla cosiddetta teoria gender.
Come va considerato, quindi, a suo parere, il partito tedesco di Sahra Wagenknecht?
Credo che il BSW sia l’ esempio di un’originale interpretazione del progressismo, alternativa a quella mainstream funzionale agli interessi delle elite. È utile a convincere anche quella rilevante quota di iscritti e di elettorato aggrappata al “né a destra né a sinistra”.
L’attuale sistema elettorale in Italia impone di fare alleanze tra partiti diversi. Ma realisticamente nel centrosinistra può reggere una colazione che parte Azione per arrivare a Avs e M5S? Non avrebbe senso ridiscutere la legge elettorale?
Certo che avrebbe senso ridiscutere la legge elettorale. Non soltanto per evitare inutili ammucchiate. Ma soprattutto per restituire al cittadino il voto di preferenza. Le liste bloccate e i collegi uninominali ad accesso autorizzato rendono il vertice di ciascun partito, nel migliore dei casi il consesso dei capi corrente, dominus assoluto delle candidature. In parlamento, le elette e gli eletti dipendono dal segretario del Partito, devono rispondere lealmente a lui o a lei se intendono puntare alla rielezione. Il principio sancito dall’articolo 67 della Costituzione –“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”-è radicalmente negato nella sostanza, ovviamente non nella forma. Di fatto, a meno di eroi, elette ed eletti non possono rispondere agli elettori. Hanno uno strettissimo vincolo di mandato.
Perché non si cambia questo sistema elettorale?
Non vedo le condizioni per le correzioni necessarie. Ricordo che, insieme alla raccolta di firme per il referendum abrogativo della Legge Calderoli, si è svolta la raccolta delle firme per la modifica della legge elettorale al fine di renderla il più possibile proporzionale e liberare le candidature. I quesiti furono elaborati dal compianto Felice Besostri. Nonostante, anche per tali quesiti, la sottoscrizione del referendum fosse possibile on-line, i numeri delle firme sono stati decisamente di scala diversa rispetto a quelli registrati sull’autonomia differenziata. In parlamento, la maggioranza di centro-destra è ben consapevole di avere un vantaggio competitivo con la vigente legge dovuto al relativamente maggior pragmatismo del suo elettorato. Difficile aprire un confronto vero per cambiarla. Temo rivoteremo con le norme in essere. Le correzioni le avrebbe dovute fare il centrosinistra, come previsto nel programma del Governo del Conte II insieme all’approvazione della norma costituzionale sul taglio del numero di componenti di Camera e Senato voluta dal M5S. Si ha la sensazione, sgradevole, che a tutte le leadership di partito vadano bene liste bloccate e collegi uninominali ad accesso autorizzato. Per contraddire tale sensazione, tutti i partiti dell’area progressista dovrebbero fare le “primarie” per la scelta delle candidature.
In un modo o nell’altro emerge la crisi dei partiti, spesso ridotti a comitati elettorali, a cominciare dalla democrazia interna agli stessi. C’è un modo per superare questa crisi strutturale che risale a nodi irrisolti nella storia politica italiana?
Va spezzata, a mio parere, la spirale della sfiducia nella politica drammaticamente visibile nel crollo della partecipazione al voto da parte di chi più avrebbe bisogno di buona politica. L’astensione è, infatti, concentrata in quelle periferie sociali di cui dicevo prima. Ci vorrebbero classi dirigenti lungimiranti, non soltanto sul terreno politico lungo tutto l’arco costituzionale, ma in ogni ambito della società: dall’informazione, alla cultura, alle organizzazioni della cittadinanza attiva.
E, invece, cosa accade?
Vedo che sono sempre più ricorrenti i segnali di promozione dell’astensione per evitare che il popolo interferisca con le élite illuminate. Mi ha colpito un recente editoriale del Corriere della Sera nel quale una donna certamente progressista come Lucrezia Reichlin ha proposto di affidare “ad un organismo sul modello della Bce” le scelte iper-politiche sugli obiettivi della transizione ecologica e sulle classi sociali da chiamare a pagarli. Ma non vogliamo rassegnarci. Insistiamo con l’impegno per classi dirigenti adeguate e per riqualificare l’attività politica anche attraverso le correzioni alla legge elettorale.
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