Carcere senza respiro
Si può capire il risentimento di chi ha visto uccidere i propri cari, che questo sia avvenuto ad opera della criminalità organizzata, come per mano di un familiare o di un fidanzato che non ha voluto accettare la fine di una relazione, o anche a seguito di un tragico incidente provocato da disattenzione o imprudenza, come pure per un errore medico. È assolutamente comprensibile, direi, che tutto ciò susciti sentimenti di odio e di vendetta. Quando un familiare, un amico o un’amica, qualcuno che conosciamo e amiamo viene strappato ai nostri affetti in maniera tragica e brutale, non si può “pretendere” l’accettazione, la rassegnazione, la compassione, il perdono. Tutto ciò nella sfera privata.
Se, però, dalla dimensione privata passiamo al livello delle autorità preposte a gestire la pena di chi ha sbagliato, occorre mettersi in un’altra prospettiva. Qui non c’entrano i sentimenti e gli affetti colpiti, qui entra in campo la legge. Sta facendo discutere l’affermazione che il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha fatto nei giorni scorsi durante un evento in cui venivano presentati i nuovi mezzi di massima sicurezza in dotazione alle forze dell’ordine. Secondo il sottosegretario è «un’intima gioia l’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con sopra il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, e far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare e incalziamo chi sta dietro quel vetro e non lo lasciamo respirare».
Inevitabili le polemiche: da una parte l’opposizione che invoca le dimissioni del sottosegretario; dall’altra le forze al Governo che minimizzano e suggeriscono un’interpretazione non letterale della frase, secondo cui Delmastro avrebbe voluto dire che alle persone destinate al 41 bis (un regime di carcere duro previsto per reati molto gravi legati alla criminalità organizzata nell’ottica di impedire contatti con l’esterno) non bisogna lasciare fiato.
La Conferenza nazionale dei garanti delle persone private della libertà, attraverso il suo portavoce, Samuele Ciambriello, ha reso nota l’indignazione di tutti i garanti. «Parole di una gravità inaudita – hanno scritto – che, proprio perché pronunciate da un rappresentante del Governo della Repubblica, che ha giurato sulla Costituzione, appaiono ancor più inaccettabili, in quanto profondamente offensive della dignità umana delle persone che vivono in condizione di privazione della libertà personale e perché dette espressamente in violazione dei basilari principi costituzionali in tema di esecuzione penale».
Di certo non è questo che aiuta ad affrontare i numerosi problemi che affliggono il carcere. Queste parole, continuano i garanti, «alimentano un già acceso clima di odio, che impedisce di trovare concrete soluzioni alle tante e gravi criticità delle condizioni di vita delle persone detenute presso i nostri Istituti penitenziarie, di cui il sottosegretario alla Giustizia dovrebbe seriamente farsi carico». E sottolineano come tali espressioni delegittimino il lavoro degli operatori penitenziari, e della polizia in particolare.
«Per noi garanti – concludono –, la comunità penitenziaria è costituita da detenuti e “detenenti”, che, come luogo di riscatto personale, deve essere sempre caratterizzato dal rispetto reciproco, dalla non violenza e dalla tutela della dignità delle persone. È evidente che, pronunciando queste parole, il sottosegretario alla Giustizia dimostra di non conoscere nemmeno il motto della polizia penitenziaria: “Despondere spem est munus nostrum” (Garantire la speranza è il nostro compito)».
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