Sovranità europea, la guerra e i giovani
Farà parte della carenza di visione del futuro che sembra segnare un’intera generazione, ma è evidente che la gran parte della popolazione giovanile appare lontana dalla preoccupazione reale sulla guerra.
Il concetto, tuttavia, è stato sdoganato nel dibattito pubblico ed è frequente la presenza degli altri gradi militari nei talk show oltre ad esperti di studi strategici che invitano a rivalutare una materia trascurata: la geografia. Sono pochi, infatti, non solo negli Usa, coloro che sanno riconoscere i confini e i nomi dei Paesi di una mappa “muta”.
La tragedia del conflitto sembra destinata a restare sugli schermi, con le notizie sulle migliaia di vittime e le immagini delle città distrutte, eppure i generali parlano chiaro. Lo ha fatto di recente Carmine Masiello, Capo di stato maggiore dell’Esercito, che ha rotto gli indugi nel dichiarare l’intenzione di tornare al nome originario di “Scuola di guerra” per indicare il percorso formativo previsto per gli ufficiali.
Il soldato deve sapere ciò che è chiamato a fare, non certo per volontà propria ma perché deve essere preparato al “mestiere delle armi”. Come ha detto Masiello in un’intervista al Corriere della Sera, andiamo incontro ad «anni di grande crisi, meglio farsi trovare preparati» anche perché, afferma il generale che proviene dalla Folgore, «ad oggi l’organico non è sufficiente, i due scenari di guerra – Ucraina e Striscia di Gaza – ci insegnano che serve la massa, perché le forze si logorano e vanno rigenerate». Servirebbero «10 mila soldati in più ai quali bisogna inevitabilmente affiancare riserve che consentano di aumentare gli organici all’esigenza».
La questione può sembrare nominalistica se si pensa che la scuola dell’Aeronautica militare di Firenze è ancora dedicata a Giulio Douhet, il primo che teorizzò l’uso massiccio dell’arma aerea sulla popolazione civile.
Il cambio di nome serve però a far capire il mutamento di clima generale. Non occorrono più, cioè, soldati formati per le attività di peace keeping ma per vere e proprie azioni di guerra, quelle, cioè, dove «occorre usare immediatamente la massima violenza possibile», come dice il generale Giuseppe Cucchi, già direttore del Centro militare di studi strategici, nonché rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato e Ue.
La questione, quindi, va oltre la fornitura delle armi ad un Paese terzo, ma la presa in incarico realistica del reclutamento di nuovi soldati da inviare in battaglia: “serve la massa perché le forze si logorano e vanno rigenerate”.
La sospensione della coscrizione militare ha fatto venir meno il collegamento tra l’escalation bellica e la chiamata diretta alle armi, che appare molto remota per i più giovani. Come avviene infatti in tanti ambienti dell’impegno sociale, anche negli eventi pubblici organizzati contro la guerra si registra una carenza di partecipazione giovanile, con l’eccezione di alcune organizzazioni politiche studentesche. Una preoccupazione assente prevalentemente anche tra le famiglie che non si pongono la domanda sull’arrivo della cartolina di precetto per i propri figli. Eppure in Svezia, ad esempio, è tornato il servizio militare obbligatorio, mai sospeso in Norvegia, Paese che lo ha esteso, ora, anche alle donne.
Le prime avvisaglie della presidenza Trump sono in linea con quanto già annunciato nel senso della volontà di un minor coinvolgimento degli Usa in Europa con la necessità di aumentare le spese dei Paesi nel settore della Difesa, compreso la massiccia fornitura richiesta dall’esercito ucraino.
Lo ha detto in maniera rude Steve Bannon, l’ideologo del movimento trumpista Maga. Prima avvisaglia di un cambiamento che obbligherà a fare scelte urgenti prima dell’insediamento effettivo il 20 gennaio 2025 del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Per il momento una guerra mediatica l’ha ingaggiata Elon Musk, anch’egli ideologo e soprattutto finanziatore di Trump, che sui social ha criticato duramente la magistratura italiana in materia di diritti umani dei migranti provocando una nota ufficiale del Quirinale per ribadire la sovranità del nostro Paese. Una procedura che appare anomala solo se si ignora che il “privato cittadino” Musk, oltre ad essere tra gli uomini più ricchi al mondo, ha un ruolo strategico decisivo con controllo di SpaceX, l’azienda aerospaziale con un cospicuo numero di contratti con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
La questione, oltre le polemiche interne sul sovranismo esibito del governo Meloni, pone in evidenza il ruolo possibile dell’Europa nel quadro internazionale. La recente visita di Mattarella in Cina ha permesso a Romano Prodi, che ha accompagnato il viaggio del Presidente nel grande Paese asiatico, di ripetere la convinzione sulla soluzione possibile del conflitto in Ucraina solo nell’accordo diretto tra Cina e Stati Uniti nella competizione esistente sul piano commerciale, finanziario e quindi militare. Una visione prevalente finora a Washington risale al paradigma della storia antica, la trappola di Tucidide, per prevedere la necessità di un riarmo continuo in vista dello scontro inevitabile tra le due potenze.
Gli effetti della crescita delle industrie degli armamenti hanno da qualche decennio determinato in Italia la politica industriale di Leonardo, tra le maggiori società controllate dallo Stato assieme ad Eni e Fincanteri.
Contravvenendo alla retorica sul disinteresse dei giovani, alcuni studenti universitari hanno occupato la sede di Leonardo a Torino per protestare contro la fornitura di armi ad Israele nonostante la tragedia della guerra in corso a Gaza. La società ha precisato che si tratta di «assistenza tecnica da remoto, senza presenza di personale nel Paese, per riparazione materiali e fornitura ricambi» relativi a velivoli di addestramento di produzione Alenia Aermacchi consegnati nel 2014. Recenti inchieste del periodico Altreconomia affermano, tuttavia, che non è affatto operativo l’embargo di sistemi d’arma verso Tel Aviv a partire dal 7 ottobre 2023.
A prescindere dai fatti da accertare, resta da approfondire il quadro degli accordi industriali e militari del nostro Paese.
L’incursione dei giovani attivisti è stata condannata duramente dal ministro della Difesa Guido Crosetto che sul social X ha parlato di «persone che vanno trattate per ciò che sono, pericolosi eversivi». Non è da trascurare che la sede di via Marche a Torino è quella al centro di un progetto di grande investimento per fare del capoluogo piemontese, segnato dalla lunga crisi di Stellantis, un polo industriale di Leonardo in stretto rapporto con il Politecnico di Torino.
Anche i giovani di Friday for future stanno ricevendo molta meno attenzione mediatica, se non indifferenza e ostilità, dopo che alcuni di loro si sono uniti nella critica alle politiche energetiche di Eni. Il loro numero è diminuito. Ovviamente è ciò che accade quando si passa dalle manifestazioni colorate alla concretezza delle scelte sempre più urgenti di conversione ecologica ostacolate nei vertici internazionali come la Cop29 in corso in Azerbaijan.
Così accade quando, dopo l’esibizione di arcobaleni e colombe, ci si confronta con le strategie politiche ed economiche di un Paese che è al centro di uno scenario che fa dire ai generali di prepararsi alla guerra. È questo il momento, come diceva Giorgio La Pira, di dimostrare il realismo della pace possibile.
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