Vedere il mondo attraverso il Pakistan
Quasi un mese: dal sud al nord del paese, da Karachi a Islamabad, poi a Dalwal, una cittadina del Punjab non lontanto dalla più grande miniera di sale del Pakistan, Khewra Salt Mines. Poi di nuovo verso il sud per fermarmi a Lahore, affollatissima, che sta lottando tra il vecchio ed il nuovo e assumendo il volto di una moderna metropoli. Lahore, purtroppo famosa per gli attacchi terroristici a due chiese cristiane nel 2015. Sono passato anche da quei posti, ho parlato con la gente, ho raccolto il loro dolore e sconforto. Eppure anche questa è la vita in questo grande paese che conta più di 250 milioni di persone, di cui 3 milioni sono cristiani e circa 5 milioni hindu. Il resto della popolazione è, naturalmente, islamica. Qui si soffre se non fai parte della maggioranza: prima o poi senti il morso della persecuzione, il peso di essere diverso dagli altri.
Ho raccolto storie su come sia facile perdere un lavoro durato 12 anni solo perchè il nuovo capo non aveva simpatie per i cristiani e voleva metterci un musulmano. Dopo mille angherie decidi di andartene, altrimenti finirai con qualche accusa in tribunale. Così è la vita da queste parti. Eppure ho ascoltato anche toccanti storie di gente che continua a perdonare, a costruire ponti tra sponde molto lontane della società. «Non tutti i mullah sono ostili», mi ha detto oggi il direttore di una piccola scuola di 210 studenti, per la maggior parte cristiani: «Ci sono tanti mullah aperti al dialogo, soprattutto tra quelli che hanno studiato e vivono nelle città».
Vivere in campagna è più difficile se sei cristiano: puoi essere accusato di aver bruciato il Corano e finire linciato (accuse che spesso sono finalizzate a prenderti la terra, la casa, magari il negozio). Non sono notizie insolite su queste strade, eppure, tra questa gente, in queste strade, mi sono sentito spesso accolto, anche viaggiando da solo, la mattina presto, su un autobus popolare gremito di musulmani, interessatissimi a questo straniero con un cappello sindh, regalatomi da un amico a Karachi conosciuto su un altro autobus. Un cappello che mi ha accompagato durante tutto il viaggio e che, direi, mi ha aperto le porte della simpatia e del sorriso di molti.
In autobus, un giovane accompagnato dalla moglie con il burka, mi ha chiesto se avessi potuto procurarmi denaro pakistano, le rupie, altrimenti me le avrebbe date lui. Voleva che mi sentissi a mio agio, e c’è riuscito benissimo. Abbiamo chiacchierato durante tutto il tragitto, due ore. Arrivato alla stazione finale, si è assicurato che fosse tutto ok prima di lasciarmi e proseguire.
Non ricordo il suo nome, non ci siamo scambiati i numeri di telefono, ma ricordo molto bene il suo sorriso, il suo modo di parlare educato, e alla fine mi ha detto anche: «Mi piace il dialogo interreligioso: so che ci sono molti cristiani bravi e musulmani cattivi. Voglio studiare le religoni». Anche una giovane signora musulmana con marito e bimbi: volevano sapere da dove venissi, chi fossi. A Lahore, i bazar mi hanno letteralmente preso il cuore: c’era il mondo intero, e si vende cibo di ogni genere anche la notte. Ho mangiato ed è andata benissimo: nessun mal di pancia. C’è poi il fatto che la gente ti vede ma non ti osserva: sono di una discrezione delicata che colpisce.
Provenendo dal mondo veloce di Bangkok, dove minuto dopo minuto hai qualcosa da fare, il telefono che squilla, il taxi che arriva, il treno che parte, qui in Pakistan ho vissuto una vita decisamente più lenta ed a misura umana. Chiaccherate con la gente, lunghe, davanti ad un thè (chai): e tutto per raccontarsi la vita, i sogni e soprattutto i dolori incontrati. Mi sono letteralmente immerso in lunghi silenzi ascoltando questi eroi della vita quotidiana che sopravvivono e vivono felici anche in mezzo ad un mondo molte volte ostile.
Ho visto i sorrisi di molti cristiani che mi raccontavano di aver perso tutto, con le lacrime che scendevano, seguite da un sincero: «Dio ci aiuterà». L’ho sentita troppe volte questa frase, da troppa gente per non essere sincera e autentica. Mi sono chiesto come abbiano potuto pensare che Dio li ama ancora dopo tante sofferenze, stenti, povertà persecuzioni e bombe. Mi sono vergognato di avere così poca fede nella vita, nel futuro, anche in Dio: almeno rispetto a loro.
Scrivo questa pagina all’aeroporto di Lahore ed ho in cuore una certa paura di cosa troverò domani, quando il portello dell’aereo si aprirà su un altro mondo. Vorrei che il Pakistan non uscisse più dal mio cuore, o meglio: vorrei che questo positivo modo di vedere la vita non scomparisse in me. Chiara Lubich aveva una convinzione che mi ha da sempre affascinato: attraverso la piaga di Gesù crocifisso e abbandonato, si vede un’altra realtà. E io, ormai non più giovane, dopo aver visto non poche delle sofferenze del mondo, oggi ritrovo quelle sue parole attraverso gli occhi ed i racconti della gente che ho incontrato in questo ultimo mese. E scopro un mondo pieno di speranza, di solidarietà, anche di amore. Sento che devo ribaltare i miei parametri: ho imparato in questa terra pakistana che conta vedere il mondo con gli occhi di Dio. Quel dio che vive accanto alla gente e accanto a te, che soffre con chi soffre. Nella vita c’è sempre una speranza più grande di me, di noi.
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it