Florenskij: l’amore realizzato è bellezza
L’ 8 dicembre del 1937 moriva, nel Gulag staliniano di Leningrado, il sacerdote, filosofo e scienziato russo Pavel Aleksandrovič Florenskij, che così sintetizzava la sua vita e la sua opera: «La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza (…) Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio (…). La mia vita spirituale, la mia vita nello Spirito, il mio divenire ‘simile a Dio’ è bellezza, quella della creatura originaria di cui è detto: ‘E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono’(Gn 1,31)».
Così scriveva Pavel Florenskij nella sua opera principale, La colonna e il fondamento della verità, pubblicata a Mosca nel 1914, annunciando quasi un programma spirituale che si compirà nella “bellezza” anche negli anni oscuri dell’annientamento psicologico e fisico del lager, nel fango di un’esistenza capace di trasfigurare in bellezza l’indescrivibile degradazione di quella “notte” dell’uomo, e di fare della propria umiliazione un’offerta di gloria eucaristica, fino al martirio.
Perché la bellezza di cui parla Florenskij non è altro che l’espressione gloriosa dell’amore teandrico di Cristo quando è appropriato e realizzato dal credente, è la doxa che si rivela a Giovanni nel momento supremo della kenosis del Verbo, è quindi la bellezza come icona ed epifania della santità.
Solo quando l’amore raggiunge il culmine del sacrificio di sé nella gratuità esso diviene “bellezza”, nel senso teologico e mistico che Florenskij attribuiva a questo termine. Si può dire allora che per Florenskij la bellezza indica il senso ultimo di tutte le azioni di Dio, della creazione, della rivelazione, dell’incarnazione, della redenzione, della glorificazione, e che non essere capaci di “vedere” la bellezza significa anche avere gli occhi e il cuore chiusi al mistero di Dio, non essere capaci di santità.
Perché solo il “santo” sa vedere la “bellezza”, giacché il santo fa vivere in sé lo stesso amore con cui Dio ama il mondo e l’uomo. Anche per Flolrenskij «solo l’amore è credibile», e tale amore fatto “bellezza” e “gloria” anche nell’ora della prova e dell’annientamento, diviene “icona” di Dio, icona di santità.
Quando il grande teologo Michail Bulgakov ebbe conoscenza della morte dell’amico, ebbe a scrivere di lui: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato ad una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia […]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte […]. L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita».
Pavel Florenskij nasce il 9 gennaio 1882 a Evlach, in Azerbaigian. Si laurea nel 1904 all’Università di Mosca in Matematica e fisica con il prof. Nikolaj V. Bugaev (1837-1903), uno dei più eminenti matematici del tempo. In un’opera del 1898, La matematica e la visione filosofico-scientifica del mondo, Florenskij applica i principi della matematica pura, elaborati da Bugaev, in funzione di una critica del determinismo matematico, e in ordine ad una concezione della natura discontinua, filosofico-simbolica dei numeri, sulla quale inizia a costruire la sua visione unitaria del cosmo. Costituirà per questo una costante di Florenskij l’elaborazione di una visione del mondo integrale, che parte dai numeri come «forma» del reale, per giungere ad integrarvi la filosofia, la teologia, e la stessa mistica.
Nel saggio autobiografico intitolato Ai miei figli. Ricordi dei giorni passati, scritto tra il 1916 e il 1925, Florenskij ricorda come fin dai primi anni di vita in Georgia fosse stato afferrato da una percezione mistica della realtà, che gli faceva scorgere in ogni fenomeno della natura ed in ogni evento intorno a lui il “mistero” che lo circondava, ovvero come tutte le cose possedessero una dimensione misteriosa che ne costituiva il vero essere al di là della loro apparenza, come se tutta la natura fosse animata da una Vita e una Natura eterna e ne custodisse il mistero.
«A questo proposito – scriverà alla moglie dal Gulag – voglio dire a te e ai bambini che tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero. Tutto ciò che non ispira questo sentimento, non rientra affatto nell’ambito del mio pensiero, mentre ciò che lo ispira vive nel mio pensiero e prima o poi diventa oggetto di ricerca scientifica».
Mistero percepito soprattutto in alcune realtà: la madre, ad esempio, in cui Florenskij riconosce un “essere particolare”: «Sapevo che mia madre mi amava molto; nello stesso tempo lei suscitava in me il sentimento di una misteriosa grandiosità».
E poi la musica, il canto, i racconti delle fiabe, ma soprattutto il “mare”. L’immensità della superficie marina appariva al giovane Florenskij custode di qualcosa di misterioso, sentimento che non lo abbandonerà nemmeno di fronte al mare gelido che circondava le isole del gulag. La stessa risacca apparve allora a Florenskij come una immensa orchestra, composta da innumerevoli strumenti che suonavano un «unico e misterioso ritmo», il ritmo che proviene dall’«infinita Eternità», un «suono ritmico dell’Infinito» che usciva dalle «viscere materne dell’Essere».
«Sulla riva del mare – egli scrive – sentivo di essere faccia a faccia con la materna, solitaria, misteriosa e infinita Eternità, dalla quale tutto scorre e tutto ritorna. Essa mi chiamava e io ero con lei».
Tutti gli esseri della natura appaiono allo sguardo contemplativo del giovane Florenskij, disposto al martirio, intrecciati in una «misteriosa parentela», simile alla fratellanza universale delle creature cantata dal cantico di Francesco, perché manifestazione della bontà del Creatore, donatore dell’essere nella gratuità e nella bellezza.
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