La morte di Sinwar è la fine di Hamas?

Dopo l’uccisione di Yahya Sinwar, il premier israeliano Netanyahu ha annunciato: “È la fine di Hamas”. È però evidente che l’annuncio non comporterà la fine della guerra israeliana né del “terrorismo palestinese”, anche se ci fosse qualche passo avanti verso una tregua a Gaza. I veri nodi cruciali ostinatamente non affrontati restano la vita, i diritti e la dignità di palestinesi e israeliani
Il leader di Hamas Yahya Sinwar ucciso da Israele, foto EPA/ABEDIN TAHERKENAREH

Stéphanie Khouri scriveva sul quotidiano libanese L’Orient-Le Jour il giorno dopo l’uccisione di Yahya Sinwar, ideatore con Mohammed Deif dell’attacco contro Israele del 7 ottobre 2023 e capo di Hamas, colpito casualmente durante un bombardamento israeliano su Rafah, nella Striscia di Gaza: «Il capo di Hamas è caduto in combattimento, quasi per caso, in uno scenario che promette di alimentare la leggenda. Il 17 ottobre l’uomo più ricercato di Gaza è morto con il viso avvolto in una kefiah, resistendo fino all’ultimo. Il “macellaio di Khan Yunis”, noto per il suo carisma ma anche per la sua crudeltà, lascia dietro di sé un movimento indebolito.

“È la fine di Hamas”, si è affrettato ad annunciare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. “Il giorno dopo – quello senza Hamas – è arrivato”, ha detto la candidata democratica alle presidenziali statunitensi Kamala Harris. La realtà però potrebbe essere più sfumata». E la giornalista libanese sintetizza questa sfumatura nella conclusione del suo articolo, riportando anche l’opinione di Andreas Krieg, docente alla School of Security Studies del King’s College di Londra: «La morte di Sinwar lascia un vuoto che favorisce una maggiore decentralizzazione dei poteri […]. La resistenza continuerà in altre forme, ma a chi ci si potrà rivolgere, soprattutto durante i negoziati? Gli israeliani hanno creato una situazione in cui non ci sono più interlocutori».

Pare infatti che l’attuale governo israeliano non abbia ancora digerito che gli omicidi dei leaders di Hamas degli ultimi 20 anni non hanno finora distrutto l’organizzazione: l’esempio storico più evidente è l’uccisione il 22 marzo 2004 a Gaza dello sceicco Yassin, il fondatore di Hamas, intenzionalmente ucciso dall’esercito israeliano. «Gli omicidi non sono mai bastati a rimodellare Hamas. È questo il suo punto di forza: a differenza di Al Fatah, il gruppo non si affida a un singolo individuo», osserva l’analista politico palestinese Tahani Moustapha. Non è quindi impossibile, anzi è probabile, che dalle rovine di Gaza stiano già emergendo nuovi modi di lottare, forse più radicali.

«Oltre al fatto che ci sono ancora migliaia di combattenti, le nuove reclute hanno dato ossigeno all’organizzazione», osserva Andreas Krieg. L’utopia della guerra fino alla fine contro il terrorismo palestinese predicata da Netanyahu, più che una soluzione radicale si sta sempre più mostrando come la banale espressione di una caparbia ideologia dell’eterna guerra. Beninteso, anche la concezione di Hamas del jihad contro il “nemico sionista” fino alla sua eliminazione presenta connotati ideologici più che analoghi. Sembrano non esserci vie d’uscita al ciclo dell’eterna vendetta e dell’eterna guerra.

In realtà, credo che una strada ci sarebbe, ma occorre qualcuno (che finora non appare) che sappia scovare il coraggio e la follia (analoga a quella elogiata da Erasmo) per leggere la storia con altri occhi. E sono occhi per guardare prima di tutto la vita, i diritti e la dignità delle persone, di tutte le persone. Non per escogitare formule impossibili, ma per aprire almeno uno spiraglio nel mare dell’odio e dell’indifferenza. La vita di Yahya Sinwar è un esempio palese delle conseguenze di un odio ingoiato insieme al liquido amniotico, che solo col tempo si impara a gestire. E non tutti ci riescono, anche perché è congiunto inestricabilmente con una equivalente dose d’amore: per la terra, la gente, la famiglia e la fede.

Yahya Sinwar era nato nel 1962 in un campo profughi di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza all’epoca occupata dall’Egitto. La famiglia era però originaria di Majdal Asqalan (oggi Ashqelon, in Israele), dalla quale era stata cacciata dagli israeliani durante la Nakba del 1948. Una famiglia di profughi palestinesi, espulsi dalla loro città e rinchiusi in un campo profughi dentro la gabbia blindata (la Striscia di Gaza), sovraffollata e senza prospettive. Ci sono tutte le premesse perché un ragazzo e poi un uomo intelligente e orgoglioso come Yahya Sinwar elaborasse un odio profondo per quelli che percepiva come i persecutori accaniti della sua famiglia e della sua gente.

Dopo la laurea all’Università islamica di Gaza, negli anni ’80 Sinwar è già in prima linea nella lotta: nel 1989, al terzo arresto, ha 27 anni ed ha già ucciso 2 soldati israeliani e 4 civili palestinesi che ritiene collaborazionisti. Viene arrestato e condannato da un tribunale israeliano a scontare 4 ergastoli. Resta in carcere più di 22 anni (durante i quali studia l’ebraico e la mentalità israeliana, legge scritti dei fondatori di Israele, elabora idee e strategie), poi nel 2011 è tra i 1027 detenuti palestinesi rilasciati in cambio della liberazione di Gilad Shalit, un soldato israeliano che era stato rapito nel 2006. Il resto della vita di Sinwar è storia e insieme leggenda, quella di un eroe per molti palestinesi, e non solo per loro. Sotto le macerie, accanto al suo cadavere, oltre ad un kalashnikov, alcuni proiettili, denaro e poche altre cose, c’erano anche un libretto di preghiere e un tesbih, il rosario islamico.

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