8 vie per la felicità
Indipendentemente dal sesso, dalla religione, dall’etnia, dalla condizione sociale, tutti cerchiamo di essere felici. Ma che cos’è la felicità?
L’etimologia di questa parola mi ha sorpreso. Confesso che l’origine di questo termine mi ha aperto orizzonti più ampi per capire meglio cosa significa essere felici. “Felice” proviene dal latino felix (genitivo felicis), che originariamente voleva dire “fertile”, “fruttuoso” (“che dà frutto”), “fecondo”.
Più tardi, per estensione metaforica del significato, poiché ciò che è fertile e anche propizio, favorevole, felix è diventato sinonimo di “fortunato”, “allegro”, “soddisfatto”. Felicità allora è il dono che si fa di sé nella ricerca di dare frutto.
Possiamo dire che essere felice non è soltanto arrivare al momento del raccolto, ma fare tutto il lavoro che viene prima di avere il granaio pieno: la preparazione del campo, la semina, l’attesa, la cura durante la crescita e, alla fine, la mietitura. La felicità ha inizio nella decisione di seminare!
Mentre si lavora per arrivare alla raccolta dei frutti, la felicità accompagna questo processo. Questo proposito deve essere vero, sincero e essenziale nella nostra vita. È il senso che diamo a ciò che facciamo.
Per Gesù, la felicità può essere intesa nell’ambito di questa concezione. In quello che ci dice, Gesù non associa l’essere felice al lavoro finito, realizzato, e nemmeno a una vita priva di preoccupazioni, sofferenze, persecuzioni.
Se essere felici è dare frutto, vale la pena ricordare il bel passo in cui Gesù dice: «Se il chicco di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; se muore, porta molto frutto» (Gv 12, 24).
In questo versetto si capisce che per dare frutto è necessario mettere a repentaglio la vita, avere un motivo fondamentale per il quale vivere…
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Nel vangelo di Giovanni, Gesù ci rivela il cammino di questa felicità tanto cercata: «In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13, 16-17). Così, vediamo che per Gesù la felicità non è legata a un momento, non è una circostanza, ma la disposizione a riconoscere l’autorità di Dio su di noi.
È bene aver coscienza che la nostra vita non ci appartiene; abbiamo la vita, siamo vivi… ma il soffio della vita è di Dio.
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Soltanto rimanendo in Dio porteremo frutto e saremo felici… ma per far questo è necessario essere potati, una volta o l’altra. Molte delle potature che riceviamo nella vita ci inducono a ribellarci, al momento non le comprendiamo, ma una lettura più ampia della nostra storia ci farà vedere che in tutto ciò che accade c’è la pedagogia di Dio.
Per noi, essere umani “moderni”, è difficile capire e concepire le beatitudini. Come si può essere felici o beati patendo la fame, soffrendo, essendo calunniati…? In questo caso la felicità non sta nel benessere, nella bonaccia, ma nella ragione e nella comprensione di ciò che stiamo vivendo con questa o quella situazione. Se siamo immersi nella sofferenza, e la croce è semplicemente croce, siamo crocefissi, e gridiamo e recalcitriamo.
Ma se riusciamo a guardare oltre quel momento, quella circostanza, riempiendo di senso con maggiore giudizio la nostra esistenza, allora il dolore acquista un senso. Anche se soffriamo, la ragione principale che muove la nostra vita ci farà felici, poiché non ci arrendiamo, non desistiamo, non pieghiamo la testa, ma “lottiamo” con dignità.
Qui la lotta non è contro le sofferenze, alcune delle quali sono inevitabili – come una malattia, per esempio – ma si tratta di lotta interiore che ingaggiamo con noi stessi di fronte alla quale possiamo credere: lottare è non perdere mai la speranza e avere davanti agli occhi la fede sincera che ci muove. È il grande assenso, il grande “amen” della liturgia… Sia fatta, si compia la tua volontà, Signore… io credo.
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La felicità non è una brocca d’oro alla fine dell’arcobaleno, non è tutta la ricchezza del mondo, non sono tutti i piaceri che la vita può darci, non è l’avere o il possedere, la felicità non è la persona che io desidero.
La felicità non sta lì davanti agli occhi, non può essere toccata con le mani, non può essere gustata col palato, la felicità non sta e non starà mai fuori. Per questo siamo così infelici, poiché cerchiamo nelle cose ciò che non si può abbracciare. La stessa espressione “cercare la felicità” dovrebbe essere messa in questione. Infatti, si cerca ciò che non abbiamo o che perdiamo.
Il verbo “cercare” ci porta quasi sempre nel mondo esterno. Per questo, associamo erroneamente la felicità con oggetti, persone o situazioni. E nel caso dell’infelicità tendiamo a credere che in certi momenti il mondo cospira per la nostra infelicità, e possiamo elencare le persone che secondo noi sono la causa per cui siamo infelici. Questo è nondimeno pericoloso, poiché responsabilizziamo gli altri di ciò che è invece personale.
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Il frutto di una insaziabile ricerca della felicità nelle cose esterne è la frustrazione. Una domanda: ti sei già sentito frustrato anche dopo aver conseguito tutto o quasi tutto ciò che immaginavate essere la perfetta felicità? Poiché è così, non sei l’unico.
Il mondo consumista nel quale viviamo cerca in tutti i modi attraverso i media pubblicitari di convincerci che se non aderiamo, se non ci fidelizziamo a tutto ciò che loro ci propongono come assolutamente necessario, saremo infelici.
Compriamo, acquistiamo, accumuliamo, sostituiamo, e la ricerca della felicità presenta un vizio incontrollabile. Arricchiamo quelli che vendono sui loro scaffali la ricetta magica della felicità. Ma la settimana prossima saremo di nuovo in fila al “supermercato”.
La felicità è virtù!
Da Luís Erlin, 8 vie per la felicità, le beatitudini, Città Nuova 2013. Per acquistare il libro clicca qui.