Quando in terapia c’è la crisi

Anche un percorso di psicoterapia può conoscere dei momenti di difficoltà: per affrontarli è utile essere consapevoli dei processi che li possono causare, della lentezza e complessità dei percorsi che si è chiamati a fare, e di fenomeni come il "transfert"
Psicoterapia (foto Pexels)

Spesso amo scrivere e condividere dei risultati delle psicoterapie perché penso possano dare speranza a chi è intrappolato in un disagio. Oggi, invece, svelo una fase del percorso che è molto complessa e difficile da affrontare: la crisi.

Sì, anche durante un percorso di psicoterapia ci possono essere delle crisi. Perché in questo luogo protetto si portano tutte quelle cose che viviamo fuori nel mondo: è un piccolo laboratorio di umanità, dove raccontiamo la nostra storia e la nostra vita, i copioni che abbiamo costruito, cioè quelle scene che vediamo ripetersi più e più volte. Leggere le conquiste, i risultati positivi, le belle storie che in qualche modo hanno cambiato rotta, hanno ripreso in mano il timone della propria nave dà un senso di gratitudine e ottimismo, come quando scegliamo di vedere una serie dove si sa che in qualche modo c’è un lieto fine e vince il bene.

Oggi entriamo invece sulle criticità, su quei momenti complessi che occorre attraversare. Uno dei freni che attiva i blocchi in terapia è l’aspettativa che il terapeuta abbia la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi e che sia lui ad agire al posto del paziente: nulla di più falso! È un lavoro di accompagnamento, in cui il professionista ha delle specifiche competenze e degli strumenti, si costruisce una relazione terapeutica e allo stesso tempo il protagonista del percorso è sempre il paziente, che va a riscoprire le proprie risorse e trova la propria personalissima strada di guarigione o di autorealizzazione.

Altro punto su cui spesso avviene uno stallo è quella vocina persecutoria che dice «Cado sempre nelle stesse dinamiche, impegnarmi non serve, la terapia non serve, il mio terapeuta forse non funziona». Come si esce da questo buco nero?

Punto primo: dinamiche che sono state ripetute per 30, 40, 50 anni hanno bisogno di tempo e ripetute esperienze nuove per modificarsi, il cambiamento necessita di ripetizione e di attraversare delle emozioni o dei vissuti che possono essere traumatici.

Secondo aspetto, quello che chiamiamo “il paradosso”: il cambiamento può accadere quando il paziente abbandona, almeno per un momento, quello che vorrebbe diventare e cerca di essere quello che è. Accettare le cose per come stanno, fare una fotografia del presente e accettarlo com’è. Finché combatteremo lo stato dell’arte continueremo a investire energie e rabbia contro noi stessi: solo accettando si può aprire uno sguardo amorevole verso se stessi e capire cosa si può cambiare.

Terzo punto, possono esserci delle proiezioni rispetto al terapeuta, quello che tecnicamente si chiama “transfert”: si può proiettare nella persona del terapeuta qualcuno appartenente alla propria storia, può essere un’occasione in questo caso dove sperimentare un atteggiamento diverso dal solito cliché. Solo dopo aver risolto questa dinamica, che può essere altamente terapeutica, allora, conviene valutare se la relazione non funziona ed eventualmente cambiare professionista.

Vorrei soffermarmi sulla grande possibilità che sia in questo caso riscrivere un copione che si sta mettendo in atto. Per fare un esempio, se nel terapeuta vedo mia madre o la mia ex moglie e rivivo quelle stesse dinamiche, con conseguenti emozioni di rabbia che ho sperimentato nel passato, nel presente, può essere l’occasione di vivere in quella relazione protetta qualcosa di evoluto, forse attraverso un chiarimento, esplicitando le ragioni della rabbia. Possono essere tante le strade che portano a una ricostruzione del rapporto, e questo risanamento può essere un meraviglioso progresso. Altro esempio, se dico al mio terapeuta una bugia perché non voglio andare a fare una seduta, successivamente svelandolo si potrebbe fare un passo verso l’individuazione. È come avere il coraggio di essere se stessi davanti ai genitori, senza paura di non soddisfare le loro aspettative.

Alle volte una relazione terapeutica può terminare o non funzionare bene: in questo caso ricordiamoci dei saluti, di chiudere senza nodi sospesi o irrisolti per poter capitalizzare quello che di buono c’è stato precedentemente. Salutare una persona e chiudere in pace un rapporto è una separazione sana e anche questo può essere terapeutico.

Forse ho scelto di fare uno dei mestieri più difficili: allo stesso tempo è una delle professioni più belle e appassionanti che parlano di umanità, di cuore, di dolore, di crescita e tutte le emozioni che proviamo ci stanno dicendo qualcosa, parlano di noi. Anche se sono fastidiose, il nostro corpo e la nostra mente ci sta comunicando qualcosa di importante. Se avete visto il primo film Inside out sicuramente ricorderete quale emozione salva la bambina alla fine della storia: la tristezza! Proprio quella che non ci piace tanto, a volte, ci può anche salvare da qualcosa che non è buono per noi, oppure ci può dire cos’è che stiamo desiderando. Stare nelle criticità, nelle feritoie, non è cosa semplice, risanare le ferite dell’animo e un’arte lenta e complicata.

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