Giornalismo di pace in tempo di guerra, intervista a Meron Rapoport
Nel cortile della facoltà di Scienze Politiche dell’università La Sapienza di Roma, confusi tra la folla dei parenti e amici di tanti neolaureati in festa, con le corone d’alloro in testa, in pochi avranno notato il fitto dialogo tra due signori dall’aspetto medio orientale che hanno molto da raccontare in controtendenza rispetto agli scenari geopolitici sempre più cupi che si disegnano sopra le teste di un’opinione pubblica inconsapevole e distratta.
Nel pomeriggio di venerdì 11 ottobre 2024, Meron Rapoport e Safwat al-Kahlout erano in una fase di pausa del convegno sulle armi letali autonome promosso dall’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo con la presenza di Peter Asaro, professore di filosofia della scienza e della tecnologia presso la New School di New York e portavoce della campagna Stop Killer Robots, e tanti esperti del mondo accademico e della società civile, per discutere dell’utilizzo sempre più raffinato di strumenti di morte grazie all’intelligenza artificiale.
Sono molti i Paesi che aderiscono alle istanze di porre un freno alla deriva dell’ “apocalisse affidata alle macchine” (efficace titolo di un serio testo curato da Francesca Farruggia e accessibile gratuitamente), ma la pratica è già in atto da tempo senza alcun freno. Lo sappiamo perché esistono organi di stampa competenti e indipendenti come Local Call (“Sikha Mekomit” in ebraico) e +972 magazine che hanno reso noto, grazie a fonti sicure e verificate, l’esistenza di Lavender, un sistema usato dall’esercito israeliano per individuare obiettivi da colpire in base ad un algoritmo dell’intelligenza artificiale programmato per tollerare il sacrificio di un certo numero di civili al fine di assicurare l’eliminazione di un miliziano nemico. Una pedina di basso rango può giustificare l’effetto collaterale di 15-20 civili e così di seguito fino a salire di livello.
La notizia sugli effetti delle azioni belliche non possono che arrivare da chi poi si trova sul posto, pagando un pesate prezzo di sangue. Secondo il conteggio più aggiornato del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cjp, ong con sede a New York), nel conflitto in corso sono stati uccisi finora 116 tra giornalisti, fotografi e cameramen (111 palestinesi, 2 israeliani, 3 libanesi).
Safwat al-Kahlout è un giornalista di Al Jazeera che è dovuto fuggire da Gaza, trovando rifugio in Italia con la moglie e i 7 figli. Conosce bene la nostra lingua anche perché ha lavorato con l’Ansa.
Meron Rapoport, noto giornalista israeliano, nutre da sempre un grande interesse per l’’italiano tanto da aver tradotto in ebraico decine di libri di autori di primo piano, come Primo Levi, Natalia Ginzburg e Pier Paolo Pasolini.
A loro due, assieme a Matteo Pucciarelli di Repubblica e Veronica Fernandes di Rainews 24, è andato il premio giornalistico Archivio Disarmo Colombe d’oro della pace 2024 assegnato per la sezione internazionale alla campagna Stop killer robots.
Con l’occasione del convegno alla Sapienza, abbiamo potuto intervistare Meron Rapoport, uno dei più noti reporter d’inchiesta con una lunga carriera che lo ha visto caporedattore del quotidiano Haaretz, responsabile delle pagine estere per i quotidiani Hadashot e Yedioth Ahronoth, e ora nell’originale redazione di Local Call.
Come egli stesso ci tiene a mettere in evidenza, Rapoport è attivista in prima linea e cofondatore del movimento A Land for All.
La vostra attività giornalistica dimostra che esiste la libertà di stampa in Israele. È così?
C’è da dire che in Israele esiste la censura militare. I nostri articoli sono controllati e approvati preventivamente. Ciò vuol dire che non tutti vengono poi pubblicati per mancanza di autorizzazione. Esiste, è bene sottolineare, una relativa libertà di stampa per gli ebrei israeliani. C’è un pubblico attento a conoscere e approfondire la nostra informazione, ma al momento l’impatto dentro il Paese è alquanto ridotto mentre il lavoro della testata è accolto valorizzato dalla stampa internazionale. Sperimentiamo delle difficoltà nel nostro agire come giornalisti sul piano normativo ma soprattutto per il clima che si respira nel Paese.
Voi siete un segno di speranza per l’esempio che dimostrate di poter lavorare insieme come ebrei israeliani e palestinesi.
In effetti esiste un rapporto di forte collaborazione nella redazione Last call e +972 magazine dove, in questo momento, scrivono giornalisti palestinesi direttamente da Gaza e giornalisti ebrei israeliani. Ghousoon Bisharat, direttrice di +972 magazine è una palestinese cittadina israeliana. La volontà di cercare la verità senza pregiudizi è ciò che ci unisce.
Chi è l’editore di +972?
Per il momento non esiste, siamo un collettivo di giornalisti.
Da che storia nasce +972?
È iniziato come un sito in lingua inglese di blogger ebrei e palestinesi animati dalla volontà di dar voce a ciò che non trova spazio nella stampa prevalente. L’attività si è poi strutturata come vero e proprio lavoro giornalistico in collaborazione con una testata on line in lingua ebraica, Last Call, dove ho iniziato a lavorare da circa 6 anni, che è finanziata dai contributi dei lettori e di alcune fondazioni internazionali, escludendo ogni contributo da parte di qualsiasi governo. Ciò ci permette di essere e restare indipendenti.
È un esempio notevole da cui prendere lezione. Evidentemente avete una linea editoriale politica che vi unisce. Quale è?
Siamo contro l’occupazione dei territori palestinesi, contro l’apartheid e a favore dell’uguaglianza tra tutti coloro che abitano la stessa terra. È la chiarezza di questa linea che ci permette di fare del buon giornalismo.
Esprimete una società civile attiva alla quale cerchiamo di dare voce, ma quanto è diffusa in questo momento in Israele e nei territori palestinesi?
Esiste. Difficile da quantificare. Forse il 20/25 % ma vive una condizione molto difficile anche perché è quasi senza rappresentanza a livello politico, non ha voce nell’informazione televisiva, tanto da apparire assente.
È una situazione così difficile dove ci vuole coraggio per andare controcorrente…
Certo ci vuole coraggio per parlare, non solo perché se scrivi qualcosa vieni attaccato ma perché il clima politico in generale è molto pesante.
Lo vediamo in maniera eclatante con la crescita dell’estrema destra ora al governo …
Ma ormai anche il centro esprime una linea non dissimile dalla destra e perfino la sinistra moderata è molto condizionata dalla destra, anche se, in maniera astratta, continua ad appoggiare la soluzione dei due stati.
Ma ha ancora senso sostenere la tesi dei due stati davanti alla situazione attuale?
Credo proprio di sì perché ebrei e palestinesi devono avere il diritto all’autodeterminazione anche se non ha senso concepire ora una soluzione dei due stati secondo l’idea di una separazione netta. Io faccio parte di un gruppo politico a Land for all che propone una confederazione di due stati indipendenti secondo le frontiere del 1967 ma che collaborano fra loro come avviene oggi nell’Unione europea.
Come mai conosce così bene l’italiano visto che è nato e cresciuto in Israele?
È una mia passione che ho coltivato da sempre tanto da venire per un anno a Firenze a studiare la lingua.
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Per chi vuole approfondire
Qui
https://www.972mag.com/topic/local-call/ il link a Local Call, sito di notizie in lingua ebraica impegnato nella democrazia, nella pace, nell’uguaglianza, nella giustizia sociale, nella trasparenza, nella libertà di informazione e nella resistenza all’occupazione. Il sito è stato co-fondato ed è co-pubblicato da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism (che pubblica anche +972 Magazine). Diversi autori di Local Call e +972 Magazine pubblicano su entrambe le piattaforme.
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