Myanmar: l’Asean tenta una mediazione

Nell’attuale scenario mondiale con le crescenti preoccupazioni per il conflitto in Medio Oriente e per quello fra Russia e Ucraina, sempre meno si parla e ci si interessa ad altre guerre che si combattono a diverse latitudini. Il Myanmar è teatro di uno di questi conflitti da oltre 3 anni
A woman stands next to debris after an airstrike on a shelter for internally displaced people (IDP) in Myanmar. (Foto EPA/STRINGER)

Lo scontro è violento e cruento, e combattuto all’interno del Myanmar (ex Birmania). Le parti in guerra sono, da una parte, l’esercito come mano armata dei militari che controllano nuovamente il Paese a partire dal febbraio 2021, dopo le precedenti aperture solo apparenti alla possibilità di una democrazia, e, dall’altra, vari gruppi armati di guerriglia attivi nel tentativo di assicurare un ritorno alla democrazia e impegnati nella difesa di diverse etnie e gruppi tribali.

 Esempio principe è quello dello stato di Rakhine, situato sulla costa occidentale del Paese asiatico, dove si affrontano l’esercito e i guerriglieri dell’Arakam Army con gravi conseguenze per la popolazione locale, in particolare per il popolo dei Rohingya, etnia di fede musulmana che continua a essere discriminato e che, con flussi periodici, tende a rifugiarsi in Bangladesh dove da anni, nella zona di Cox’s bazar, il governo di Dacca, con il sostegno di organismi Onu e della comunità internazionale, ha organizzato per loro vasti campi profughi, dove peraltro si vive in condizioni subumane. Ma quello della minoranza musulmana non è l’unico gruppo etnico o religioso a subire conseguenze catastrofiche per via della guerra civile in Myanmar. Anche i cristiani, distribuiti in diverse delle etnie del Paese, soffrono per gli scontri fra militari e ribelli.

Nello stato di Kayah, da uno o due anni, circa 150 mila persone vivono ammassate in campi profughi. La maggioranza di essi è costituita da cristiani della zona di Loikaw, fuggiti dalla città per difendersi dagli scontri tra l’esercito regolare e le milizie che si oppongono alla giunta militare. Fra l’altro, il vescovo stesso si trova fuori della sua sede, requisita dai militari che ne hanno fatto uno dei loro centri operativi. La zona di Loikaw, infatti, è ritenuta dall’esercito come una delle roccaforti dei ribelli, e quindi è regolarmente bombardata dalle forze governative. Molti cristiani cattolici di quella zona sono fuggiti dalle parrocchie: alcuni hanno trovato riparo nella diocesi di Pekhon, ma la maggior parte è rimasta nei 200 centri per profughi sparsi in quella zona del Myanmar. A rendere queste condizioni drammatiche ancora più penose, nel mese di settembre si è aggiunto l’arrivo del tifone Yagi che ha colpito il Paese – come pure il Vietnam e la parte settentrionale della Thailandia – provocando vittime e distruzioni a causa di inondazioni improvvise dopo piogge torrenziali. Alle migliaia di profughi a causa della guerra se ne sono aggiunti molti altri, vittime del tifone.

Il Paese asiatico vive, dunque, in condizioni di costante emergenza e poco trapela della situazione reale in cui si trova, anche se molti riescono a fuggire e trovare rifugio in Thailandia per poi partire, almeno quelli che possono permetterselo, per altre destinazioni. Di fatto, dopo qualche anno di timida e apparente apertura alla democrazia, dal 2021 il Myanmar è nuovamente un Paese sigillato e rischia di chiudersi nuovamente ai contatti col mondo, come è avvenuto in precedenza per vari decenni. È in tale contesto che deve essere letta l’iniziativa dei Ministri degli Esteri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean), che nel loro recente incontro in Laos hanno adottato una risoluzione per riattivare un dialogo con la giunta militare al potere in Myanmar e favorire una pace realistica nel Paese.

Il Laos, presidente di turno dell’Asean – di cui il Myanmar è membro – ha proposto di organizzare e ospitare una conferenza che aiuti a trovare una via di pace. La proposta è che tale conferenza sia organizzata congiuntamente da Indonesia, Laos e Malaysia. Questo quello che ha annunciato il Ministro degli Esteri del Laos, Saleumxay Kommasith, nel corso della riunione dei Ministri degli Esteri dell’Asean tenutasi a Vientiane il 3 ottobre. Anche se non si è ancora parlato di date precise, merita ricordare che i leader dell’Asean – quindi dei Paesi che formano il sud-est asiatico – avevano già prospettato un possibile piano di soluzione della situazione birmana declinato in cinque punti. Il piano prevede la cessazione immediata della violenza; l’avvio di un dialogo costruttivo per cercare una soluzione pacifica; la nomina e l’accoglienza di un inviato speciale dell’Asean per facilitare la mediazione del processo di dialogo; la possibilità per l’Asean di fornire assistenza umanitaria; visite frequenti dell’inviato speciale Asean in Myanmar per incontrare tutte le parti.

Merita anche sottolineare come non tutti i Paesi che compongono l’Asean abbiano, a tutt’oggi, riconosciuto il governo militare del Myanmar. Inoltre, dall’anno successivo al golpe del 2021, l’Asean ha deciso di non invitare il capo del governo e il ministro degli esteri birmani ai vertici che l’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico tiene regolarmente.

Le reazioni alla proposta dell’Asean sono state abbastanza simmetriche. Da una parte, il Nug del Myanmar, il “Governo di unità nazionale” in esilio, formato da legislatori estromessi dal colpo di stato militare, ha dichiarato che avvierà un dialogo con l’esercito solo se questo cesserà ogni violenza, rilascerà  tutti i prigionieri politici e accetterà di creare una Unione democratica federale. Da parte sua, la giunta militare al potere ha dichiarato che prenderà in considerazione il dialogo solo se le People’s Defense Force (Pdf) – le milizie  della resistenza nate dopo il golpe – rinunceranno alla violenza e agli attacchi contro i militari. Dopo anni di stallo, sembra che qualcosa di positivo si muova almeno a livello di diplomazia regionale. Particolare impegno si registra da parte del Ministero degli Esteri indonesiano, che sta organizzando a Giacarta sessioni informali di colloqui sulla guerra civile in Myanmar, coinvolgendo rappresentanti di Indonesia, Asean, Unione Europea e Nazioni Unite.

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