Un ricordo di Sammy Basso
È una di quelle persone che fa capire come il vecchio adagio, secondo cui ancor più importante di quanto dura la nostra vita è come la viviamo, non è solo un luogo comune: parliamo di Sammy Basso, nato 1 dicembre 1995 a Schio (Vicenza), e morto la sera del 5 ottobre scorso in seguito ad un malore mentre si trovava in un ristorante del trevigiano.
Sammy era noto per essere, con i suoi quasi 29 anni, il più longevo malato di progeria. Parliamo di una malattia genetica rarissima, di cui sono noti solo 130 casi al mondo, e che causa un invecchiamento precoce – tanto che consente una vita media di 13-14 anni, quindi esattamente la metà di Sammy. Quando gli è stata diagnosticata la malattia, all’età di due anni, non c’erano studi approfonditi né cure disponibili: per questo la famiglia stessa si è attivata per dare impulso alla ricerca, mettendosi in contatto con diverse associazioni all’estero e in particolare negli Usa, contribuendo alla creazione di una banca di linee cellulari a fini di ricerca, e aderendo ad un programma di studi in cui si è fatta una mappatura fisica completa del ragazzo. Questo ha aperto la strada alla creazione del primo farmaco per il trattamento della progeria, approvato nel 2021, e alla ricerca attualmente in corso per arrivare alla terapia genica, partita nello stesso anno.
Nel 2005 ha fondato con la famiglia l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso. Dopo la maturità ha percorso la Route 66 negli Usa, da cui è nato il libro Il viaggio di Sammy (i cui diritti vengono devoluti alla ricerca) e alcuni episodi tv per i canali Nat e Geo People. Nel 2015 è stato ospite al Festival di Sanremo, occasione che lo ha fatto conoscere al grande pubblico. Si è laureato con lode in Scienze Naturali nel 2018 all’Università di Padova, e in Biologia Molecolare nel 2021: anche i suoi studi universitari sono stati diretti a contribuire alla ricerca per questa e altre patologie. Il 7 giugno 2019 ha ricevuto il Cavalierato dell’Ordine al Merito della Repubblica su iniziativa del presidente Mattarella, e numerosissimi altri premi – l’ultimo in ordine di tempo il premio giornalistico Paolo Rizzi a Venezia, conferitogli pochi giorni prima della morte. Anche papa Francesco, quando Sammy era ancora studente al liceo, ha voluto parlare con lui al telefono dopo aver conosciuto la sua storia. Viaggiava molto per promuovere la causa della ricerca: era infatti da poco rientrato dalla Cina.
Personalmente ho avuto il piacere di incontrarlo, anche se solo virtualmente, per un’intervista; che si è rivelata ai limiti del commovente. Mi ha molto colpita non solo la sua gentilezza, ma anche la maniera in cui teneva a questo incontro e la disponibilità che ha dimostrato – qualunque giornalista che sta leggendo in questo momento sa che, ahinoi, capita di confrontarsi con gente assai scontrosa -: come se questa piccola intervista, non certo la più determinante che gli fosse capitato di fare, fosse importante tanto quanto quelle di maggior spessore.
Mi ha colpita la sua umiltà, non nel senso che nascondesse i risultati raggiunti – anzi, ne parlava in dettaglio e con molta fierezza – ma nel senso che non metteva al centro di questi il suo io: e infatti ne parlava quasi sempre alla prima persona plurale, come a sottolineare che il merito non era solo suo, ma del lavoro di squadra con tutti coloro che lo avevano sostenuto.
Mi ha colpita la sua fede, che alla mia domanda su come la vivesse ha definito non un’ancora di salvezza, anche se a volte finisce per esserlo, ma prima di tutto una base su cui costruire il resto.
Mi ha colpita la sua visione lucida sulla malattia, che definiva né una condanna né un merito, ma semplicemente una cosa che c’è e che può capitare a tutti. Diceva che sicuramente dal punto di vista scientifico e umano la malattia è da sconfiggere e che se avesse potuto scegliere di guarire subito, lo avrebbe fatto. Però ammetteva anche di non sapere se avrebbe voluto essere nato senza progeria, perché la malattia faceva parte della sua vita, aveva contribuito a formarlo, e non avrebbe cambiato questa esperienza per niente al mondo. Ogni vita ha le sue sfide, diceva, e la sua era questa: la combatteva, faceva ricerca per questo, ma la progeria gli dava anche molte esperienze che cercava di sfruttare al massimo.
Visione lucida della malattia significava anche sapere che probabilmente i tempi di questa ricerca sarebbero stati più lunghi della sua aspettativa di vita, che di fatto lui aveva già superato ampiamente; ma che avrebbero potuto beneficiarne tanti altri, non solo malati di progeria, perché i risultati ottenuti sono applicabili anche ad altre patologie, tra cui quelle tipiche dell’invecchiamento e che riguarderanno quindi una fascia sempre maggiore della popolazione. Sapeva che ogni giorno di vita per lui era un “di più” in questo senso, che probabilmente non sarebbe rimasto a lungo su questa terra, ma non per questo si fermava, ed era noto per la sua intraprendenza, allegria e ironia – finanche sulla malattia stessa. E non a caso, nel suo viaggio lungo la Route 66 nel 2016, una tribù di Navajo lo ha accolto dandogli il nome di Chaànaàgahiì, che significa “uomo che ha ancora tanta strada da fare”. Sicuramente Sammy di strada ne ha fatta tanta, e altra ne farà l’associazione che porta il suo nome e che continua ad operare.
Tante persone anche molto note si sono strette intorno alla famiglia con i loro messaggi: da Jovanotti, alla ministra per la disabilità Alessandra Locatelli, alla stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma soprattutto lo hanno fatto tante persone “comuni” che l’hanno conosciuto, perché Sammy era davvero di una socialità scoppiettante.
Buon viaggio, Sammy: continua la lunga strada che, anche adesso, hai ancora da fare.