Medio Oriente in fiamme a un anno dal 7 ottobre

La logica del “occhio per occhio, dente per dente” sta infiammando sempre più l’intera area che per anni è stata destinataria del 30% del mercato mondiale degli armamenti. La crescita della tensione è alimentata dalla crisi dell’Onu e dagli interessi geostrategici di attori politici esterni. Solo la pressione della società civile può smuovere i Paesi occidentali ad aprire una via diplomatica per evitare l’estendersi incontrollato della guerra
EPA/CYRIL ZINGARO

Nel corso della drammatica e pluridecennale vicenda israelo-palestinese, il 7 ottobre 2023, alla vigilia della firma dei cosiddetti “accordi di Abramo” tra Tel Aviv e Riad, Hamas ha attaccato, ucciso e rapito con una violenza senza precedenti.

La durissima risposta militare del governo israeliano è ancora in corso, mentre decine di migliaia di civili innocenti hanno pagato con la vita questa tappa dell’irrisolta questione palestinese.

Quel che emerge a un anno da quell’ennesimo fatto di sangue tra i due popoli è un quadro a tinte assai fosche con un Medio Oriente sempre più infiammato, con il coinvolgimento di altri Paesi come il Libano, la Sira, lo Yemen, anche l’Iran da un lato e gli Stati Uniti – in primis – con altri paesi occidentali dall’altro.

Il deferimento di Netanyahu e di Sinwar alla Corte penale internazionale e la conseguente richiesta di un mandato di arresto in quanto responsabili di presunti crimini di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza sono due atti senza precedenti nella storia del Medio Oriente.

L’allargamento del conflitto in atto in queste ore appare purtroppo coerente con la politica seguita dal governo in carica a Tel Aviv che, oltre ad aver ignorato per anni le risoluzioni del Palazzo di Vetro, oggi sfida anche apertamente l’ONU, definendola “palude antisemita” e il suo segretario Guterrez “persona non grata”.

La logica della guerra appare l’unica percorribile al leader israeliano, che sta portando purtroppo il suo Paese a un crescente isolamento internazionale e a un aumento di gravi episodi di intolleranza razzista nel mondo.

Molti Paesi occidentali si limitano ad auspicare la conclusione del conflitto, che invece si sta estendendo in una sequela di colpi e di contraccolpi infinita nell’ambito di un’escalation che non sappiamo come terminerà. Netanyahu, forte dell’aiuto statunitense (ultimi in ordine di tempo a settembre un pacchetto di forniture militari per 8,7 miliardi di dollari e il sostegno attivo a neutralizzare l’attacco missilistico di Teheran del 1 ottobre scorso), procede nella sua strada e l’Iran, che intrattiene buoni rapporti con la Russia di Putin (fornendogli anche armamenti per la guerra in Ucraina), continua a minacciare Israele e a colpirla direttamente e indirettamente attraverso gli Houthi yemeniti e gli Hezbollah libanesi.

L’irrisolta questione israelo-palestinese sta vivendo, insomma, una fase particolarmente sanguinosa che comunque non sarà quella finale, dato che sta lasciando una scia di odio tra i popoli coinvolti che purtroppo perdurerà negli anni.

Si può notare come l’ONU sia stato messo ai margini della scena internazionale sia in questo caso sia in quello russo-ucraino (e anche in numerosi altri).

Dopo la fine del bipolarismo si era immaginata una stagione con i “dividendi della pace” anche attraverso l’attivazione delle missioni dipeacekeeping, ma l’illusione è durata molto poco. Le guerre sono continuate, mentre l’azione di attori esterni (in primis Russia, Usa, Francia e Gran Bretagna) in situazioni di crisi finalizzata a proprie convenienze e l’uso distorto delle suddette missioni (si pensi al caso della Libia, fatta precipitare nel caos) hanno reso incapace di assolvere al suo compito primario l’ONU, bloccato nei momenti importanti nel suo Consiglio di Sicurezza dal potere di veto dei suoi cinque membri permanenti.

Sia nel drammatico scenario mediorientale, sia in quello ucraino, sia altrove, ormai sembra prevalere la logica del più forte e la corsa agli armamenti, più o meno silenziosamente in atto da oltre 25 anni, è diventata l’asse prioritario di molti governi, pronti a investire in questo ambito e a ridurre in quello sociale.

Tra l’altro, queste scelte di politica, anche economica, contribuiscono a far aumentare la forbice non solo tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche all’interno dei primi, tanto che metà della ricchezza globale è in mano a 58 milioni di persone e il 10% più ricco della popolazione globale possiede il 76% di tutta la ricchezza. Mentre l’impegno a contrastare i preoccupanti cambiamenti climatici viene sempre più relegato in secondo piano, se non addirittura sospeso.

Invece i 2.443 miliardi di dollari spesi nel 2023 nel settore della difesa (+ 6,8% rispetto al 2022) ci confermano l’impegno che molti governi hanno assunto in questo ambito tanto che nel Medio Oriente la spesa è giunta a 200 miliardi di dollari, con un incremento del 9% rispetto all’anno precedente: la guerra tra Israele e Hamas in particolare ha fatto crescere la spesa di Tel Aviv del 24%. E non abbiamo ancora ovviamente i dati per il 2024, che con molta probabilità seguiranno questa curva ascendente.

La logica del “occhio per occhio, dente per dente” sta infiammando sempre più l’intero Medio Oriente (e non solo) che, non a caso, per anni è stato destinatario del 30% del mercato mondiale degli armamenti.

L’impegno profuso in queste forniture non ha aumentato la sicurezza ma ha invece alimentato l’instabilità, tanto che l’area, strategicamente importante per i giacimenti di combustibili fossili, è da decenni teatro di guerre e rivolte funzionali a molteplici interessi sia di élite locali, sia di governi stranieri, sia di multinazionali.

Osservando la rete degli oleodotti e dei gasdotti attivi o progettati che attraversa quelle zone e i vicini mari, capiamo la complessità della partita che si sta giocando. Basta pensare all’accordo di sfruttamento del giacimento di gas offshore di fronte a Gaza, all’interno della zona marittima G al 62% palestinese, stipulato dal governo israeliano con varie società tra cui l’italiana ENI.

Come al solito, facendo attenzione alle risorse naturali e agli interessi geopolitici dei territori contesi, si riesce ad avere qualche elemento in più per comprendere lo scontro in atto. Nel nostro caso, uno stato palestinese potrebbe beneficiare di risorse non indifferenti ed essere un attore non secondario in quel quadrante, ma l’annoso e irrisolto contenzioso che si trascina con una larga scia di sangue lo impedisce.

L’attuale governo di destra israeliano non sembra per niente intenzionato a permetterne la nascita, tanto che nel luglio scorso la Knesset(il parlamento israeliano) ha votato contro quest’ipotesi, ritenuta “una minaccia esistenziale” per lo Stato ebraico, ipotesi invece caldeggiata dall’amministrazione Biden.

Quindi interessi geopolitici, odi inveterati, diffidenze reciproche, intolleranze radicate e fanatismi religiosi fanno parte di una miscela esplosiva che sta infiammando sempre più il Medio Oriente, rischiando di ampliare il conflitto ben oltre l’immaginabile, dato che l’Iran nel marzo scorso nel Golfo di Oman ha compiuto esercitazioni navali congiunte con forze armate russe e cinesi, utili anche per lanciare un segnale a chi di dovere.

Di fronte a tutto questo i paesi occidentali non sembrano essere capaci di alcuna azione né propria né in ambito UE o ONU: è la società civile che deve attivarsi per spingerli sulla strada dell’impegno diplomatico concreto e coerente, anche perché altrimenti da osservatori più o meno passivi ci si ritrova a essere coinvolti in questa tragedia.

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