Attenti alla seduzione del vitello d’oro!

Le comunità carismatiche hanno senso finché il vangelo prende un tono e una veste diversi da quelli degli altri ‘fiori’ del giardino della Chiesa e dell’umanità. Articolo pubblicato sul n. 5/2024 di Città Nuova
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L’episodio biblico del vitello d’oro alle pendici del monte Sinai, ha qualcosa di importante da dire anche alle comunità carismatiche nella fase che segue la scomparsa dei fondatori. Il suo messaggio principale riguarda la riduzione della complessità del carisma originario in qualcosa di più gestibile, semplice, ordinario. Il Dio-YHWH che si era rivelato a Mosè non si vedeva, non si toccava, non appagava i sensi, lo udivano solo i profeti: «E c’era soltanto una voce» (Dt 4,11). Tutti gli altri popoli avevano dèi semplici, statue che tutti vedevano e capivano. Il Dio di Israele era diverso, astratto, altissimo: il popolo non riuscì a restare a quell’altezza e fabbricò il vitello, un dio visibile e semplice, un dio della fertilità (toro) per diventare un popolo come tutti gli altri. Mosè era assente, e in quella assenza il popolo ridusse YHWH a vitello.

Nelle comunità carismatiche e ideali, dopo che il fondatore – ‘Mosè’ – scompare o è assente, è forte il fascino di ridimensionare e normalizzare la prima promessa, di trasformare il carisma originale in qualcosa di comprensibile da tutti e dalla comunità stessa. Un movimento carismatico nasce, infatti, attorno ad una vera innovazione spirituale e sociale. Questa novità è qualcosa di evidente al fondatore e alla prima generazione, nessuno la mette in discussione: è la sua novità assoluta che attrae e converte. E così, quando arriva un carisma, con essa giunge anche una critica, esplicita o implicita, a molte pratiche e idee religiose preesistenti, che il nuovo movimento sente di dover cambiare e abbandonare, come parte della sua missione profetica.

Nella generazione successiva, però, c’è sempre una grande difficoltà a mantenere fede a quella innovazione che inizia ad apparire difficile, lontana, troppo diversa da quello che fanno tutti gli altri. Ed ecco allora in questa fase emergere una tipica tendenza-tentazione: tornare a quelle pratiche, esperienze, attività tradizionali che quella comunità carismatica voleva all’inizio superare. Si fa fatica a restare nella novità del carisma che ora appare astratta, lontana, impraticabile perché troppo alta e impegnativa; e così invece di lavorare per capire le ragioni delle difficoltà emerse nel mettere in pratica il carisma, progressivamente si torna a quelle antiche forme che il carisma aveva intenzionalmente voluto superare. Le novità carismatiche sembrano irrealizzabili, ingenue, infantili, e si imita quello che la Chiesa e la società facevano da secoli e che ai membri della comunità appaiono invece come novità, e vengono persino presentate come la terapia per superare la crisi. Qualcuno inizia a dire: «Basta il vangelo: perché complicarlo con tutta la complessità di una spiritualità complicata?!». Una tesi che sembra perfetta, ma che porterebbe alla fine delle comunità carismatiche che hanno senso finché il vangelo prende un tono e una veste diversi da quelli degli altri ‘fiori’ del giardino della Chiesa e dell’umanità.

Ma c’è di più. Per capirlo torniamo all’episodio biblico del vitello. Lì c’è un dettaglio molto importante, racchiuso nel nome che gli israeliti danno al vitello: il nome è YHWH, cioè l’identità speciale del loro Dio diverso: «Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: ‘Domani sarà festa in onore di YHWH’» (Esodo 32,4-5). Che cosa significa? Il nome della Bibbia dice la natura profonda di una realtà. Chiamare il vitello aureo con il nome di YHWH significa cambiare Dio, sostituirlo con un dio più semplice perché banale. Finché abbiamo chiara la distinzione tra Dio e il vitello d’oro, se per fragilità iniziamo ad adorare l’idolo potremo sempre convertirci e tornare a casa. Ma il giorno in cui chiamiamo il vitello con il nome di YHWH, non si torna più a casa perché non c’è più nessuna casa dove tornare: la cattedrale è ormai diventata una casetta popolare. Il danno più grave è quindi cancellare la distanza tra il carisma e i suoi surrogati, fino a farli coincidere.

In genere, queste trasformazioni sono amate e applaudite dalle comunità nei tempi del post-fondatore, perché in una fase che è quasi sempre di disorientamento, stanchezza, pessimismo, calo di desiderio, depressione spirituale e accidia collettiva, qualsiasi attività nuova è vista come preferibile all’immobilismo – e lo è. Il futuro dei movimenti carismatici, però, sta nel riuscire ad evitare che la prassi comunità si trasformi in qualcosa di molto, troppo diverso dalla prassi specifica del suo carisma, perché se lo fa non è più capace di attrarre vocazioni e giovani, e si estingue. Tutto evolve, anche nella vita dello spirito, ma non tutte le evoluzioni sono capaci di futuro buono. Prenderne coscienza è già l’inizio della cura.

Le più recenti puntate della rubrica di Luigino Bruni sono pubblicate mensilmente sulla rivista Città Nuova.

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