Omicidi e violenza, si può interrompere il contagio
Un programma creato a Chicago nel 2000 e collaudato in una ventina di città in America Latina e Caraibi comincia a prevenire le uccisioni nella capitale uruguayana, dove una crescente violenza sta “ammalando” la periferia
La violenza di quartiere, si sa, ha i suoi codici. Non può tremare il polso di chi “deve” risolvere un problema mandando qualcuno al creatore. È così che la catena della violenza accumula anelli all’infinito. Per interrompere questa logica occorrono degli… “interruttori”.
Gli “interruttori della violenza” sono agenti comunitari del programma “Quartiere senza violenza” approdato in aprile a Montevideo per ridurre omicidi e sparatorie.
Parlano “la stessa lingua” dei delinquenti potenziali assassini. Hanno precedenti penali, spesso sono stati in carcere, e questo dà loro autorità negli ambienti della “mala”. Camminano per le strade più pericolose con disinvoltura perché le conoscono bene: ci sono cresciuti.
Maximiliano Pereira e Madela Seoane sono due “interruttori” dell’equipe dell’Ong Vida Nueva. Come i loro compagni e quelli dell’altra squadra che opera nei quartieri caldi della capitale, hanno ricevuto un opportuno addestramento che permette loro di individuare situazioni delicate ed intervenire sui potenziali assassini prima che sia troppo tardi.
La meta è cambiare i comportamenti di trasmissione della violenza e promuovere un cambiamento delle norme della comunità. La strategia parte dal determinare chi potrebbe essere la prossima persona a trasmettere ed invertire il potenziale di trasmissione (nel caso della violenza, l’idea che questa sia attesa dalle persone intorno a loro). Facile a dirsi…
Non a caso il metodo si chiama Cure violence. Si basa sulla convinzione che la violenza è una malattia sociale, e che va curata alla stregua di una epidemia. È nato dall’ex direttore dell’unità di sviluppo degli interventi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’epidemiologo Gary Slutkin, che l’ha applicata dapprima a Chicago.
C’era tornato per riposarsi dopo anni di lavoro sul campo in Africa. Rientrato in patria – ha raccontato a The Rotarian – aveva realizzato che «in lungo e in largo, nel Paese, la violenza era un problema così come lo era stato il colera o la dissenteria in Bangladesh, o l’Aids in Uganda». E cominciò a lavorarci.
Il suo metodo è stato applicato con successo in altre città degli USA e poi in una ventina di centri urbani ad alto tasso di criminalità dell’America Latina così come in quartieri conflittuali di Africa e Medio Oriente, e a Londra.
Gustavo è uno degli “interruttori” “di ronda” nella zona ovest della periferia di Montevideo. Racconta a El Observador di quando si sono convinti che il programma funzionava.
Un adolescente drogato aveva dato in pegno un cellulare in un centro di spaccio nel quartiere, ed era stato “condannato a morte perché non pagava”. E il cellulare non funzionava neppure. Gustavo e il suo partner si diressero sul posto, non senza dubbi e timori.
«Mentre camminavamo ciascuno aspettava che l’altro gli dicesse di tornare», confessa. Sulla porta c’erano vari “clienti”, incappucciati anche se c’erano 40 gradi.
Quando poterono parlare con chi di dovere, che li apostrofò: «Che cosa volete?», spiegarono che il cellulare non importava, che la mamma e i fratellini di quel ragazzo erano disperati pensando alla fine che avrebbe fatto, e proposero che se ne andasse dal quartiere.
«Prendi il cellulare, daglielo. Che se ne vada» fu la risposta. Uscirono di lì contenti come bambini a Natale, perché «una mamma da quella sera avrebbe potuto dormire tranquilla». Suo figlio se ne doveva andare, ma era ancora vivo. «Ci siamo detti: questa è l’interruzione!». Per tutta l’equipe è stata una iniezione di fiducia e una vittoria di squadra.
Madela e Maximiliano illustrano il caso di Damián (nome di fantasia): una “causa persa”, una “bomba a orologeria” per la sua famiglia, che non sapeva più che fare. Il patrigno giunse a chiedere una custodia della polizia per la madre. Finché il nonno, che conosceva Madela, la chiamò. Nonostante la guardia, la mamma riuscì a far parlare Madela e Maximiliano con Damián, che capì e mise la testa a posto.
Non sempre va bene, chiaramente. Alcuni preferiscono continuare così, e poco o nulla si può fare.
Ma in altri casi si evita una tragedia. Il cambiamento culturale necessario non è facile da realizzarsi. Ad esempio, chi “spiffera” o indica una possibile intenzione di omicidio è generalmente mal visto. “Non si tratta di questo”, ricalca Juan Rocha, presidente della Ong Vida Nueva, “bensì di cercare la soluzione a un problema“.
Per questo è decisiva la capacità degli “interruttori” di “fiutare” il pericolo, farsi un’idea della situazione del quartiere e fare leva su altri metodi di risoluzione dei conflitti.
A differenza di Madela e Maximiliano, Gustavo proviene da una famiglia di classe media. Ha cominciato Sociologia ed è finito sulla cattiva strada per una serie di decisioni sbagliate, che l’hanno portato alla prigione, a una fuga e al ritorno in carcere. «Sinceramente, mi piaceva quello che facevo», ha ammesso in un programma TV, ed è convinto che «la prigione non riabilita nessuno».
Dal 2006 ci ritorna regolarmente come pastore evangelico.
Le equipe del progetto sono composte ciascuna da otto “interruttori”, che “pattugliano” i quartieri a due a due, uno psicologo e un assistente sociale. Agiscono su 10 sobborghi della zona nord-ovest della capitale. In questi primi mesi, si sono fatti conoscere dalla comunità, sempre attenti ad intervenire in caso di necessità. Realizzano anche attività di sensibilizzazione.
Circa la metà degli interventi hanno avuto a che fare con minacce di morte, conflitti tra o con bande e uso di armi da fuoco.
È ancora presto per dire se “Quartiere senza violenza” porterà risultati significativi come nei bassifondi di New York, dove ha ridotto gli omicidi e le sparatorie tra il 18 e il 63% o le strade di Ciudad Juárez, in Messico e Loiza (Porto Rico), nelle quali gli omicidi sono scesi del 50%.
Certamente, anche una sola morte evitata, una vita che non si interrompe, vale decisamente la pena.
Al giornalista Diego Cayota, Gustavo ha così riassunto il concetto base: «Non importa il nome, non importa chi sia, o se lo meritava o no. Quello che importa è che c’è stata una morte in meno, capisci? Che qualcuno sarebbe morto e non è morto. Questo ci dà una forza enorme».