Hezbollah, Nasrallah e il futuro del Libano

Fatto fuori in modo brutale il capo della fazione filoiraniana nel Paese dei cedri, ci si interroga sull’avvenire di una nazione che da ottant’anni non ha mai avuto vera pace, perché oggetto di troppe cupidigie provenienti da fuori
Foto EPA/ATEF SAFADI

Una premessa è necessaria. Al solito, in Medio Oriente è un mantra sulla bocca di tanti, quasi tutti, questa sentenza: «Se ci lasciassero sbrigare le nostre faccende da soli ce la caveremmo bene». Come a dire: gli interessi stranieri sui nostri Paesi, delle potenze mondiali così come di quelle regionali, sono tali che non riusciamo più a far funzionare i meccanismi equilibratori di cui da sempre siamo esperti. La storia non è così lineare, però: se è vero che nella regione mediorientale i popoli indigeni hanno periodicamente trovato e ritrovato i loro equilibri, non è vero che li abbiano raggiunti senza violenza e senza soprusi. Ma è tuttavia vero che, da quando si è cominciato a estrarre petrolio dal sottosuolo della regione, e da quando l’aria condizionata ha cambiato radicalmente la vita dei suoi abitanti, le cose si sono complicate enormemente, perché gli appetiti dei grandi di questo mondo (e dei grandicelli della regione più o meno allineati sui primi) hanno sconvolto il modo di vivere e di relazionarsi delle popolazioni, portando a uno stato di guerra continuo che, dal 1945 a oggi, non si è mai veramente interrotto. Ci sono state solo tregue tra le varie guerre.

Seconda premessa, altrettanto necessaria. Qui da noi, nella fascia settentrionale del Mediterraneo, e oltre gli oceani, non sappiamo veramente cosa intendiamo quando parliamo di Medio Oriente, perché siamo schiavi di un sistema mediatico che riesce a trasformare il bianco in nero, e viceversa. Il bianco, ovviamente, è quanto corrisponde ai nostri interessi economici e securitari, il nero è altrettanto ovviamente quello che pensano coloro che minacciano la nostra prosperità. Quanto letto in questi giorni sulla vicenda di Nasrallah e degli Hezbollah libanesi ha questa tonalità: mentre tutta la faccenda dovrebbe essere descritta con una serie infinita di tonalità grigie. Terrorismo? Non è solo una prerogativa esclusiva dei filoiraniani. Autodeterminazione dei popoli? Di quelli nostri, certamente, degli altri dipende dai miei interessi. Colonialismo? Non è mai terminato, anche se non ha più diretta influenza nella costituzione dei governi, agendo piuttosto nelle modalità economica, commerciale, digitale e militare. Insomma, noi guardiamo a queste regioni, al Libano in particolare, con lenti europee, che da quelle parti non funzionano allo stesso modo.

Terza premessa, anch’essa non secondaria. All’interno del mondo islamico è in atto una guerra senza quartiere tra sunniti (il novanta per cento) e sciiti (il restante dieci per cento). Le differenze tra le due parti non è solo storica e teologica, ma è stata accentuata negli ultimi decenni dalla politica delle grandi potenze mondiali che non hanno inventato nulla di nuovo, ma che hanno cercato di ripetere la massima della politica imperiale romana: divide et impera. Dove sunniti e sciiti vengono lascianti vivere senza interferenze, passati i periodi di assestamento (vedi la storia di Iraq, Siria e Libano), trovano i loro modi di convivere e di evitare il massacro. Tra questi due schieramenti musulmani, stanno i cristiani (e gli ebrei), che avrebbero tutto l’interesse a evitare le deflagrazioni intra-musulmane per assicurare la propria sopravvivenza. I veri credenti, quelli che fanno del fatto religioso una questione innanzitutto spirituale e poi sociale, di solito riescono a lavorare in tale modalità ed evitare il peggio. I credenti fanatici, che esagerano l’elemento sociale e sminuiscono quello spirituale, trovano la loro identità nell’opposizione, e non nella conciliazione.

Quarta premessa, breve. Si dice in Medio Oriente una storiella che è stata ripresa, tra gli altri, anche dal cardinal Martini, un grande amante della regione. Un giornalista che si reca a Gerusalemme (o in Libano, o a Baghdad…) dopo un soggiorno di una settimana è capace di scrivere un libro. Dopo un mese, più di un articolo non uscirà dalla sua penna. Dopo un anno, si rifugerà nel silenzio. E invece in Medio Oriente si muore anche di narrative eccessive. Il mistero aleggia sulla terra delle religioni del libro.

Quinta e ultima premessa. L’Unifil svolge con coscienza il proprio lavoro alla frontiera tra Israele e Libano: finora i missili e i droni sono passati sopra le teste del contingente in gran parte composto da militari italiani. L’Onu, che ha dato nel 2006 all’Unifil il compito di evitare il peggio, oggi è in deliquescenza, non ha più alcuna autorità, e le ultime vicende a Gaza lo hanno crudelmente messo in evidenza: dopo quarant’anni di progressiva delegittimazione dell’autorità internazionale, ci ritroviamo con problemi globali che nessuno riesce a dominare, vedi pandemia o le ultime guerre. Tutti in ordine sparso: Washington cerca di calmare Netanyahu, Pechino opera una sua moral suasion spesso sottovalutata, Mosca ha la patata bollente dell’Ucraina da risolvere e a fatica mantiene la sua presenza in Siria e nel Sahel: ma nessuno ha il bandolo della matassa. Risultato: una guerra mondiale è già in atto, a strati (commerciale, digitale, di intelligence, industriale, con corollari di migrazioni, produzione di armi, sfruttamenti vari) e non solo e non tanto sui campi di battaglia presidiati dai militari.

A questo punto dell’articolo, mi rendo conto che ho esaurito le battute a disposizione, mentre avrei dovuto scrivere dell’uccisione di Nasrallah e della decapitazione dei vertici di Hezbollah, della reazione minacciata da Teheran, dei bombardamenti israeliani sullo Yemen, di un Paese come il Libano che viene continuamente violentato sotto la luce del sole, delle dichiarazioni di preoccupazione globale di Pechino. La cronaca la troverete altrove, cari lettori, qui cerchiamo di alzare lo sguardo per capire: non bastano i comunicati dell’IDF per avere un quadro esatto della situazione, non bastano le dichiarazioni di Biden o XI o Putin o Khamenei. Serve un sussulto, prima del baratro.

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